Vinted, i mercati dell’usato sono diventati digital
Sembra soltanto ieri quando nei piccoli paesi, si potevano osservare orde di acquirenti inferociti in cerca di un affare, ovviamente, il prodotto, faceva parte di quel ramo di mercato che adesso chiamiamo “second hand”. È il caso di Vinted, l’app che dopo aver conquistato dodici paesi Europei, è arrivata in Italia. Essa è ad oggi la più grande piattaforma online C2C europea dedicata alla moda di seconda mano.
Secondo una ricerca condotta dalla stessa Vinted, circa un terzo degli italiani ha acquistato più di un capo usato lo scorso anno e la metà degli acquisti sono avvenuti online. I fattori principali che dominano il successo della moda di seconda mano, sono senz’altro economici, senza dimenticare però, il ramo sostenibile. Due quinti degli intervistati ha ammesso che la ragione principale per cui si preferisce un capo usato ad uno nuovo è un significativo risparmio economico. Il 31% del campione, invece, con l’acquisto usato, intende ridurre gli sprechi, favorendo la sostenibilità ambientale.
La storia di Vinted
Vinted parte da molto lontano, era infatti il 2008, quando Milda Mitkute e Justas Janauskas stavano per affrontare un trasloco. La donna si rese conto, però, di avere troppi vestiti da portare con sé. Così, Justas creò un sito apposito per permetterle di regalare i capi in eccedenza ai suoi amici. Tale scelta fu così apprezzata, che ben presto, anche i media iniziarono a parlare della coppia e della loro idea. Fu in quel momento che i due decisero di dare vita ad una cosa più grande che potesse coinvolgere non solo gli amici e i parenti, ma molte altre persone. Ecco che nacque Vinted.
Vinted, ad oggi, ha uffici collocati a Vilnius, Berlino, Varsavia e Praga. Da queste sedi ci si sposta in 12 mercati attivi: Italia, Spagna, Francia, Lussemburgo, Belgio, Paesi Bassi, Germania, Austria, Repubblica Ceca, Polonia, Lituania, Regno Unito e USA.
Principali funzioni di Vinted
La piattaforma lituana, dedicata alla moda di seconda mano, conta ad oggi, 34 milioni di iscritti in Europa. Vendere o comprare qualcosa, risulta essere molto facile. Dopo aver scaricato l’app, si passa subito all’azione, caricando la foto dell’articolo che si intende vendere, annotando ovviamente anche il suo prezzo. L’annuncio sarà subito online, e dopo essere stato venduto, basterà impacchettare l’articolo, stampare l’etichetta di spedizione prepagata fornita da Vinted, e raggiungere il punto di consegna entro 5 giorni.
Quando l’acquirente decide di acquistare un prodotto, sarà lui stesso, a decidere la società di spedizione con cui inviare il prodotto. Tale scelta, intende garantire sicurezza per chi vende e per chi compra. Oltre all’etichetta prepagata, esiste anche la possibilità di scegliere una spedizione personalizzata, a patto che sia possibile tracciarla ugualmente. Infine, per quanto riguarda gli articoli bambino o casa, che raggiungono dimensioni e pesi considerevoli, è possibile scegliere la consegna a mano, evitando la spedizione, concordando, semplicemente, un punto di incontro con l’acquirente stesso. Tutte le modalità di spedizione disponibili e i relativi prezzi saranno indicati durante il checkout. Essi, possono variare in base alle dimensioni del pacco e a dove si trova la persona che vende.
Molto importanti anche le politiche di rimborso, Vinted, infatti, permette un rimborso totale, nel caso l’articolo non è come descritto, non arriva, ha subìto danneggiamenti durante il trasporto, se viene annullato da Vinted stessa, o viene annullato dall’acquirente o da chi lo ha venduto. I pagamenti sarà possibile evaderli con iDeal, con carta di credito o debito, con saldo Vinted o con PayPal.
Grande merito per il pagamento: tutto ciò che si ricava dalla vendita, appartiene al venditore. Non sarà applicata, infatti, alcun tipo di commissione, e il ricavo della vendita potrà essere spostato dal saldo Vinted ad un altro conto corrente. In linea con l’offerta di Vinted in tutta Europa, sarà disponibile anche la protezione dell’acquirente (5% del prezzo dell’articolo più una commissione fissa di 0,70€).
Un modo di commercio ad ampio respiro, se si pensa che i membri italiani, possono fare affari anche con quelli francesi, che ad oggi, sono 12,5 milioni. I cataloghi, infatti, saranno presenti in entrambi i paesi, offrendo una maggiore selezioni di articoli tra cui: vestiti, accessori, scarpe per adulti o bambini, nonché tessuti per la casa, libri e articoli decorativi.
La moda Second Hand
Per molto tempo, l’acquisto di capi usati, era relegato solo ad un vizio hippy, o ad una necessità economica stringente, adesso, invece, sembra essere, invece, il connubio tra voglia di spendere poco ottenendo il massimo, e la necessità di fare maggiore attenzione all’ambiente. Ad oggi, solo negli Stati Uniti, la moda di seconda mano, vale 24 miliardi di dollari e nel 2023, arriverà ai 51 miliardi. Cifre da capogiro, per le stime riguardo il 2028, quando il mercato dell’usato varrà più del fast fashion, circa 64 miliardi di euro.
Cifre diverse, ma altrettanto incoraggianti, quelle italiane, secondo l’osservatorio Second Hand economy, realizzato da Doxa per il portale Subito, il giro d’affari per i beni usati in Italia nel 2018 è arrivato a 23 miliardi di euro, con una crescita del 28% in cinque anni.
Sono molte le iniziative che incentivano la “moda usata”, a Milano, ad esempio, chi vende un capo in uno dei negozi a insegna Bivio, riceve il 50% del valore della merce sotto forma di buono acquisto o il 30% in contanti. In cima alla lista dei prodotti usati più acquistati e venduti, compaiono le borse. Il marchio più ricercato è Gucci, mentre Chanel, è il primo in valore.
Il futuro della moda sta nell’usato?
Se da una parte c’è la ricerca estenuante di capi innovativi, dall’altra coesiste la voglia di un ritorno alle origini, che lascia spazio ai capi che seppur passati, non hanno mai subìto un tramonto definitivo. Secondo un rapporto 2019 di ThredUP e GlobalData, i millennials, i nati tra il 1996 e il 2010, rappresentano il 33% dei clienti dell’usato. A dare man forte a tali cambiamenti, sono stati i grandi marchi di lusso, che più al guadagno economico, si sono concentrati sulle analisi di mercato, cercando di captare, quali prodotti vale la pena di lasciare nel mercato, quali reimmettere, e quali invece eliminare definitivamente. Sono molti i marchi, che hanno agito in questo senso, primo fra tutti Levi’s, il quale ha prontamente lanciato sul mercato un sito di abiti usati, cavalcando l’onda del lockdown pandemico.
La fast fashion
Agli antipodi della moda usata, si trova, ovviamente la fast fashion.
Con tale definizione, si intende un settore dell’abbigliamento che realizza abiti a basso costo, ma di bassa qualità, lanciando di continuo nuove collezioni in tempi brevi. Le grandi catene commerciali, spesso, alla base del loro successo, nascondono proprio un modo di fare moda, chiamato fast fashion. Tale ramo di mercato, genera un fatturato di 26,15 miliardi di euro, trascurando di fatto sia conseguenze umane che ambientali.
Per fornire un prodotto a basso costo, ovviamente ci sarà, infatti, un taglio di ricavo economico per chi è in basso nella catena produttiva, ed ovviamente anche un calo delle condizioni lavorative significativo. È il caso emblematico del 24 aprile 2013, in Bangladesh, quando un edificio in Rana Plaza, che ospitava numerosi appartamenti, negozi e diversi laboratori tessili fu il protagonista di un evento drammatico. L’edificio, presentava numerose crepe strutturali, ma i proprietari delle fabbriche tessili, preferirono lasciar lavorare i propri dipendenti, procurando di fatto un collasso definitivo, che produsse 1129 vittime e 2515 feriti. Questa data viene ad oggi indicata come la Fashion Revolution Day.
Oltre all’impatto umano, c’è da contare che la fast fashion, non tiene conto nemmeno dell’ambiente: durante la produzione tessile, infatti, non c’è alcuna attenzione per i tessuti scelti, per le tecniche di produzione, e per l’utilizzo di sostanze chimiche aggressive. La commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite, in una conferenza in Svizzera si è espressa ampiamente, affermando che tale industria ad oggi, è responsabile del 20% dello spreco dell’acqua e del 10% delle emissioni di anidride carbonica, oltre che ovviamente nella produzione di gas serra per gli spostamenti riguardo aerei e navi commerciali. Anche i corsi d’acqua, sono fortemente afflitti dalla fast fashion, ogni giorno, infatti, tale industria, immette nelle risorse naturali elementi tossici, sostanze dannose, coloranti e pesticidi.
Come ultima conseguenza, non di minor importanza, è senz’altro la produzione di rifiuti: i prodotti invenduti o indesiderati, infatti, generano una serie di prodotti. I quali, finiscono nelle discariche (in Italia, ogni anno, si accumulano 240.000 tonnellate di prodotti tessili).
Due chiacchiere con Paola Baronio
A parlarci in modo approfondito di tali tematiche, è la giornalista professionista Paola Baronio, esperta di moda sostenibile, autrice ed ideatrice del suo blog: la mia camera con vista, oltre che co autrice del libro Fashion Change, il libro sulla moda sostenibile edito da Connecting Cultures.
1.Come definirebbe in maniera semplice la moda sostenibile?
Bella, giusta e pulita. Più che etica, ecologica o green mi piace definire questa moda consapevole.
2.Quali sono a detta di un’esperta le differenze con la fast fashion?
La moda sostenibile è slow, tutto il contrario della fast fashion! In sintesi le differenze sostanziali sono sulla qualità e la quantità: la moda sostenibile si basa su una filiera corta e trasparente con una produzione necessariamente limitata che avviene nel rispetto dell’ambiente e del contratto dei lavoratori; il fast fashion su una filiera delocalizzata e spesso non controllata nelle dinamiche dell’impatto ambientale e del rispetto dei lavoratori che ha la sua principale ragione d’essere su produzioni massive che consentono l’offerta low cost.
3.Può la cosiddetta moda “di seconda mano” essere una risorsa ambientale? e in che modo?
Certamente perché non richiede produzione e quindi dispendio energetico, e il capo riutilizzato non viene gettato nelle discariche.
4.C’è ad oggi un’innovazione tecnologica, che secondo lei, può aver dato man forte alla moda sostenibile?
La ricerca tecnologica è la più grande risorsa della sostenibilità nella moda. Una ricerca applicata alla produzione a basso impatto energetico di materiali biodegradabili o riciclabili, la ricerca sulla manutenzione dei capi e alle modalità di lavaggio, la ricerca sul riutilizzo delle plastiche disperse nell’ambiente.
5.Tra le sue attività professionali c’è la partecipazione al corso “Out of Fashion”, il primo corso sulla moda sostenibile. Quali sono state le sue tematiche principali? ci sono state diverse edizioni di tale corso? qual è il suo ricordo più bello legato a tale esperienza?
La mia esperienza con Out of fashion è iniziata come allieva della prima edizione del corso nel 2014 quando ho voluto addentrarmi nelle tematiche della moda consapevole attraverso un percorso qualificato. Con gli anni, da giornalista ho conosciuto molti brand di moda sostenibile e mi sono appassionata alle tematiche relative alla comunicazione che ora insegno nella masterclass dedicata. Out of Fashion affronta tutti i temi legati alla sostenibilità nella moda, dallo studio dei materiali e al loro impatto ambientale attraverso lezioni condotte dai più noti professionisti del settore. Per me Out of Fashion ha rappresentato e rappresenta ancora un’esperienza professionale appassionante in continua evoluzione e un contesto dove ho coltivato relazioni personali forti basate sulla condivisione di valori comuni.
6.Quali sono a lungo andare gli effetti procurati dal bioaccumulo sulla pelle di sostanze dannose, date da processi produttivi non sostenibili?
Difficile sintetizzare in due parole i danni alla salute dei lavoratori e dei consumatori derivati dal contatto con tessuti realizzati con materiali e coloranti nocivi: si va dalle allergie, alle dermatiti, ai tumori, all’avvelenamento per il rilascio di metalli, a lesioni interne ed esterne per irritazioni e altro ancora.
7.In che modo la moda sostenibile strizza l’occhio all’economia circolare?
Non direi che strizzi l’occhio, piuttosto l’economia circolare è uno dei grandi pilastri su cui si basa il sistema della moda sostenibile.
8.Cosa ne pensa dell’app vinted appena sbarcata in Italia, essa, in qualche maniera potrà contribuire all’avvento della moda di seconda mano?
È una novità che sicuramente favorisce la promozione e l’adozione dello shopping di seconda mano.
9.Il covid-19, ha secondo lei aiutato la moda “second hand”, e perchè?
Non so se abbia aiutato specificatamente la moda second hand, di sicuro ha favorito la diffusione di informazioni sulle nefande conseguenze del fashion system. L’eccesso di offerta e di produzione, il suo effetto sul sistema ambientale, la noia per lo shopping compulsivo e la sua inutilità nel contesto mondiale del lockdown.
10.È tra gli autori del libro “Fashion change”: quali sono le tematiche principali? in che maniera vuole essere un manifesto di moda green?
Fashion Change è un libro scritto a più voci da autori selezionati tra i professionisti, attivisti, intellettuali docenti del corso di Out of Fashion e quindi tratta, con testi e immagini nuovi e inediti, tutte le tematiche inerenti alla moda sostenibile affrontate nelle lezioni. È un manifesto della moda green perché racconta e documenta il grande cambiamento in atto nel sistema moda, nella coscienza dei consumatori e nelle intenzioni di un numero sempre più consistente di produttori.
11.Sono molti i ragazzi che hanno frequentato il corso Out Of fashion, riconosce nei millennial, o comunque nei giovani d’oggi un qualche cambiamento? Potranno i giovani abbandonare del tutto la fast fashion?
Le giovani generazioni sono senz’altro più sensibili alle grandi tematiche della sostenibilità, nella moda e non solo. Molti di loro non vogliono diventare “solo” dei consumatori responsabili ma anche contribuire personalmente al cambiamento come professionisti e imprenditori etici. Non so se le giovani generazioni contribuiranno alla fine del fast fashion perché, al di là degli ideali, i numeri ci dicono che i giovani ne sono ancora i più rilevanti consumatori, se non altro per i prezzi low cost. La moda sostenibile da parte sua deve fare una grande riflessione sulla sua accessibilità economica. Il second hand rappresenta a mio parere una delle soluzioni più efficaci per soddisfare la domanda di shopping senza recare danni al pianeta.