Il ddl 1660 e la svolta panpenalista del governo Meloni
(di Raffaele Cimmino)
Sta suscitando non poche fibrillazioni e allarme il ddl 1660 contenente “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”, già approvato alla Camera lo scorso 18 settembre e appena arrivato in Senato. Si tratta di un disegno di legge che, incidendo su norme già esistenti, introduce nuove figure di reati, addirittura venti, e aumenta le pene per altri già tipizzati.
In particolare, l’articolo 10 introduce una nuova fattispecie di reato (art. 634-bis c.p.) volta a reprimere le occupazioni abusive di abitazioni, inasprendo le pene previste dall’art. 633 c.p., che già punisce chi invade arbitrariamente terreni o edifici. La differenza tra i due articoli sta nella specificità del 634-bis, dal momento che riguarda gli immobili destinati a domicilio e introduce una procedura di rilascio rapido dell’immobile occupato prevedendo per i responsabili una reclusione da due a sette anni. Con le modifiche apportate agli articoli 146 e 147 del codice penale in materia di esecuzione penale, poi, si prevede che il rinvio dell’esecuzione della pena per le detenute madri, in caso di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti, diventi facoltativo. Quindi, se l’esecuzione non può essere rinviata per motivi di sicurezza, la pena dovrà essere scontata in istituti a custodia attenuata per madri, mentre invece la precedente disposizione prevedeva il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena.
L’articolo 16 modifica l’articolo 600-octies del codice penale in materia di accattonaggio e prevede una pena da due a sei anni per “chiunque induca un terzo all’accattonaggio, organizzi l’altrui accattonaggio, se ne avvalga o comunque lo favorisca a fini di profitto. La pena è aumentata da un terzo alla metà se il fatto è commesso con violenza o minaccia o nei confronti di persona minore degli anni sedici o comunque non imputabile”. E ancora. L’articolo 14 reca modifiche all’articolo 1-bis del decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66, relativo all’impedimento della libera circolazione su strada, con la trasformazione da sanzione amministrativa a reato che prevede la reclusione fino a un mese, se commesso singolarmente, e con la reclusione da sei mesi a due anni, se commesso collettivamente da più persone. Non poche proteste sta sollevando questa impostazione evidentemente restrittiva del diritto a manifestare. L’inasprimento che prevede la reclusione sembra dettata dalla volontà di rendere oltremodo difficile organizzare una protesta anche pacifica con blocchi stradali e ferroviari. Una misura che, se da un lato è indirizzata alle recenti forme di protesta dei movimenti ambientalisti come i Fridays for future, è suscettibile anche di essere applicata alle manifestazioni contro le grandi opere contestate per il loro rilevante impatto ambientale: il riferimento al progetto del Ponte sullo stretto avallato dal ministro Salvini appare tutt’altro che peregrino. Naturalmente le proteste dei lavoratori per conflitti con le imprese con blocchi stradali e ferroviari si intendono comprese in questa fattispecie.
Forte è stata la reazione delle opposizioni che hanno sottolineato il carattere fortemente repressivo dell’inasprimento delle pene per chi protesta nei Cpr, i centri di trattenimento per migranti, e per le proteste, anche pacifiche, in carcere. Va segnalato infatti l’introduzione del reato di “rivolta all’interno di un istituto penitenziario” che prevede pene da uno a cinque anni in caso di rivolta da parte di tre o più persone contro gli ordini impartiti. Vengono colpiti anche i comportamenti di resistenza passiva, mentre in caso di condotta violenta che porti a ferimenti o morti si arriva a prevedere fino a venti anni di reclusione per la sola partecipazione. Fortemente criticato, per l’accanimento verso figure particolarmente deboli, il divieto per i migranti non in possesso della carta di soggiorno di poter comprare sim telefoniche.
Il coro di proteste e critiche che si sono sollevate è unanime. Si va dal presidente di Amnesty International, Riccardo Noury, che ha dichiarato: «Questo testo intacca pesantemente il diritto di protesta ai segretari di CGIL e UIL, Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri, che hanno sottolineato come il ddl limiti l’iniziativa e le mobilitazioni sindacali per difendere i posti di lavoro e contrastare le crisi aziendali e occupazionali. Di deriva populista, illiberale e autoritaria, parlano invece gli avvocati dell’Unione delle Camere Penali, che denunciano come il ddl sia “caratterizzato da uno sproporzionato e ingiustificato rigore punitivo nei confronti dei fenomeni devianti meno gravi e a danno dei soggetti più deboli, caratterizzandosi per l’introduzione di una iniqua scala valoriale, per la quale alcuni beni risultano meritevoli di tutela maggiore rispetto ad altri di uguale valore”, rispondendo alla logica “ del populismo giustizialista e del diritto penale simbolico».
Non meno forte la protesta delle opposizioni parlamentari per l’evidente pericolo che si tratti di norme volte esclusivamente a reprimere il dissenso.
Insomma, ci troviamo di fronte a un quadro normativo eterogeneo, caratterizzato da un lato da un intento propagandistico e, dall’altro, mirato a rispondere, sul piano penale, alle contraddizioni sociali e alle manifestazioni di dissenso che il governo prevede, evidentemente, si intensificheranno. Restano moti dubbi sul profilo di costituzionalità di queste modifiche, innanzitutto sotto il profilo della congruità della pena in rapporto al bene giuridico offeso. Se fosse, come è probabile, definitivamente approvato, il ddl potrà essere facilmente attaccato da ricorsi alla Corte Costituzionale. Intanto, il governo appare sempre più sotto la luce di un allarmante cedimento a un’inclinazione repressiva e autoritaria.