Quiet quitting: sindrome post-Covid19
Pandemia e incertezza sul futuro portano a ragionare sull’importanza del proprio lavoro e della vita privata
Quiet quitting, o come verrebbe tradotto in italiano “l’abbandono silenzioso”, è una definizione che si riferisce a chi si limita a fare i compiti necessari del proprio lavoro, senza alcun sforzo ulteriore.
Non è un concetto nuovo, ma la sua diffusione, grazie ai social media e alla pandemia, è in aumento dal 2020 ed è ormai al centro delle discussioni relative al mercato del lavoro. Nelle ultime settimane è divenuto altresì virale, specie su TikTok con l’hashtag #quietquitting.
Lavorare quanto necessario, non fare straordinari, non prendersi responsabilità oltre i limiti contrattuali, queste alcune delle idee alla base del fenomeno.
Nonostante la forte diffusione, perfino negli Stati Uniti, ove il fenomeno ha cominciato a diffondersi ancor prima rispetto al nostro Paese, sembra che non sia ancora stata fatta luce sulla vera natura del concetto. Un sondaggio svolto ad agosto da YouGov su un campione di mille impiegati attesta che il 56% degli intervistati non aveva mai sentito parlare di quiet quitting, e anche tra il restante 44% c’erano opinioni diverse sul significato dell’espressione.
È necessario specificare che il quite quitting è una tendenza diametralmente opposta alla hustle culture, insieme di credenze, tipicamente di matrice statunitense, secondo cui bisogna lavorare sempre più del necessario per raggiungere la perfezione: ma, se la perfezione non esiste, quando verrà davvero raggiunta? Quando si sarà davvero soddisfatti del proprio risultato? Secondo diversi esperti questa chiave di lettura lavorativa potrebbe generare il fenomeno del burnout, sindrome legata allo stress da lavoro che porta all’esaurimento delle proprie risorse psico-fisiche e all’insorgere di problematiche psicologiche quali apatia, nervosismo, irrequietezza, demoralizzazione.
L’arco di tempo che ha interessato la pandemia ha portato in molti a ragionare sulla propria vita e sulla propria occupazione, e a valorizzare eventi di vita quotidiana che non possono essere vissuti se troppo tempo della propria giornata viene dedicato alla propria professione.
Va quindi diffondendosi l’idea che invece di mantenere il più possibile il rapporto con il proprio datore di lavoro, la priorità sia mantenere salda la propria salute psico-fisica.
Ipotesi molto diffusa anche quella della Harvard Business Review, secondo la quale il quiet quitting non è causa di quanta volontà abbiano i dipendenti, ma della capacità di un manager o un datore di lavoro di costruire uno stretto rapporto con i propri dipendenti, creando un ambiente sereno, che non porti l’impiegato a sperare che il tempo passi il prima possibile affinché possa uscire dall’ufficio.
In Europa, per quanto attestato dal report 2022 State of Global workplace di Gallup, il 14% dei dipendenti è ritenuto davvero coinvolto nel proprio lavoro.
Fallimento manageriale o tutto frutto di un’erronea cultura? In ogni caso il quite quitting è una concezione che probabilmente andrà ancora più a diffondersi nei prossimi anni, specie perché per la GenZ sembra che la quantità di denaro portato a casa non sia importante quanto l’equilibrio tra lavoro e vita privata, o quanto la qualità della propria vita.