Pomodoro, l’oro rosso degli italiani
Il pomodoro è indubbiamente la pianta che racconta al meglio il nostro paese tanto da essere definito l’oro rosso degli italiani. In Italia la maggior produzione di pomodori da mensa viene dal Sud. In cima alla lista si piazza la Sicilia seguita da Campania, Lazio e Puglia. Mentre per le lavorazioni industriali al primo posto ci sono la Puglia, la Lombardia e l’Emilia Romagna.
Il 2020 è stato un’anno molto complicato per la stagione dei pomodori. Dove in un clima di incertezza sanitaria causato dal Covid-19 sono state compromesse le varie procedure di raccolto. Ma le scarse rese della produzione del pomodoro derivano anche dall’andamento delle condizioni climatiche. Nello specifico, tra le tante cause, ci sono in primis le fitopatologie a cui sono esposte le coltivazioni. Difatti da tutto ciò si scatena la poca disponibilità di pomodoro rosso. In particolare quelli di grande pezzatura dove in alcune zone il deficit di produzione supera il 40-50%.
Ad esempio in Puglia e in Campania gli impianti di lavorazione del pomodoro lungo trasformato hanno chiuso anticipatamente per scarsa materia prima. Le rese inferiori alla media sono dovute prettamente ai problemi climatici. Mentre per quanto riguarda il nord Italia in lieve flessione è la produzione del pomodoro tondo di buona qualità.
Durante il periodo di pandemia si è venuta a creare un’altra situazione particolare. Il settore retail ha trascinato le vendite con richieste e prezzi elevati. Inoltre, il canale Horeca è crollato in modo drammatico a tal punto che ancora oggi il mercato industriale non ha giacenze di magazzino. E quindi conseguentemente tutto ciò va ad aggravare la campagna 2020/2021 che avrà inevitabilmente volumi inferiori paragonati alla campagna 2019/2020.
La guerra dei prezzi al centro sud
A centro sud si è venuta a creare tra gli agricoltori una vera è propria guerra. Nei mesi scorsi l’organismo di rappresentanza degli agricoltori si è presentato al tavolo con una proposta in cui si facevano le previsioni sui prezzi di riferimento superiori del 40% in confronto a quelli della campagna del 2019. Si parlava di 130 euro a tonnellata per il pomodoro tondo e 140 euro a tonnellata per il lungo, contro i 95 e 105 dello scorso anno. Dove in tutto ciò nel bacino del nord il prezzo contrattato è di 88 euro, quindi quasi il 2% in più dell’anno precedente.
Boom di vendite nel precedente lockdown
Le richieste avanzate dagli agricoltori italiani sono legate soprattutto al boom di vendita dei pelati registratosi nello specifico al periodo del precedente lockdown. Tale periodo ha portato il consumatore ad una vera e propria caccia al pomodoro da scaffale. Infatti secondo un’analisi di Coldiretti, si nota che c’è stato un’incremento a livello nazionale del 45% dove anche le vendite all’estero sono risultate in aumento. Infatti a tal proposito anche l‘Associazione Nazionale Industria Conserve Alimentari Vegetali ha ricordato che nelle ultime campagne il raccolto del pomodoro, nel centro sud è stato pagato circa il 10% in più di quello del settentrione.
“Un aumento ulteriore potrebbe già nell’immediato andare a creare tante difficoltà alle imprese. Una vera e propria minaccia che tenderebbe di distruggere nel medio-lungo periodo la filiera del pomodoro industriale del centro sud Italia”.
Il disegno del futuro del pomodoro di Anicav è chiaro, infatti specifica che tutto ciò non fa bene ne all’industria che al mondo degli agricoltori. Una guerra che non porterà benefici ma che in compenso andrà a creare gravi danni all’intera filiera del pomodoro.
Breve storia del pomodoro
Il pomodoro è ormai il re degli ortaggi nel nostro paese, ma quali sono le sue origini?
All’inizio era giallo e non rosso come siamo abituati a vederlo oggi. Originari dal Messico e dal Perù, molto apprezzati in patria, in particolar modo dagli Inca e gli Aztechi dove veniva chiamato Xitomatl. In inglese “tomato” cioè pianta con frutto globoso dalla polpa succosa costituita da tanti semi dove venivano consumati ogni giorno sotto forma di salsa. Giunse in Europa nel 1540 quando il conquistador Hernán Cortés al ritorno in patria portò con sé alcuni esemplari. Inizialmente vennero guardati con grande titubanza, esattamente come i cugini erba morella (solanum nigrum) o belladonna (Atropa Belladonna) la cui velenosità era già stata testata.
Il “pomo d’oro”
Ad innamorarsene fu il Re Sole che a Versailles per stupire i suoi ospiti mostrava quella pianta strana con i fiori gialli e palline dal colore giallo tendente all’arancio.
Tali frutti ispirarono al nome di “pomo d’oro” attribuito dal fondatore della botanica italiana Pietro Andrea Mattioli 1501-1577. Al pomodoro vennero attribuite proprietà afrodisiache dove addirittura vennero suggeriti per l’uso di pozioni e filtri magici preparati da alchimisti intorno al 500 e 600. Infatti nelle svariate lingue europee sono state tante le espressioni, da Liebesapfel, o love apple, pomme d’amour, pomme d’or, fino in Sicilia con pomu d’ammuri. Mentre nella botanica, Lycopersicon che sta per “frutto del lupo” che ne testimonia la diffidenza.
Ma i frutti delle piante arrivate inizialmente in Europa e coltivate principalmente in Francia, non davano grandi risultati. Infatti, rimanevano sempre piccoli e gialli e dalla forma piuttosto contorta dove soltanto con il cambio di zona di coltivazione arrivò a dare risultati che conosciamo oggi.
Il pomodoro arrivò in Italia nel 1596 sempre in versione di pianta che faceva da ornamento alle dimore del nord. Ma solo dopo circa 20 anni arrivò nel meridione, posizione geografica dove il clima favorevole portò ad una vera e propria metamorfosi. Dove i frutti iniziarono a diventare più grandi e di colore arancione tendente al rosso, invogliando tanti poveri contadini a spingere il popolo nella loro consumazione. Infatti fu un vero e proprio successo perché gli italiani del sud iniziarono a farne uso in più versioni.
Crudi o cotti, usati nelle minestre e nelle zuppe, in salsa e addirittura fritti nell’olio, dove quest’uso in via sperimentale portò gli italiani del sud Italia a scoprire ed assaporare il pomodoro quasi un secolo prima di tutto il resto d’Europa. Appunto negli altri Paesi europei le cose cambiarono con le varie pestilene e carestie dei secoli XVII e XVIII dove ne scoprirono il sapore. Mentre ormai nel sud Italia era già consacrato l’alimento base del popolo dove solo con la spedizione Garibaldina dei Mille arrivarono a diffondersi anche al nord.
Lo schiavismo dei campi
Dalle campagne italiane purtroppo da anni si compiono tanti episodi di cronaca drammatica, soprattutto dello schiavismo dei campi dove sono centinaia di lavoratori a perdere la vita, oltre alle donne sfruttate sessualmente nelle terre in cui si assicurano ortaggi fuori stagione decretando un caso altamente critico ancora oggi. Sono numerosi i passaggi dal campo allo scaffale del supermercato che risultano attualmente ancora sconosciuti e poco tracciati, generando etichette poco trasparenti. A nulla sono serviti i vari rimedi delle aziende per contrastare questo fenomeno, dove le varie liberatorie, le certificazioni e le ispezioni risultano tutt’oggi ancora inefficaci.
Soffermandosi sulla Campania, lo scorso febbraio 2020 si è tenuta un’iniziativa promossa da Cgil Salerno e Flai Cgil Salerno, dal tema “Agricoltura di qualità tra sfruttamento e caporalato”.
Le istituzioni locali, enti ed associazioni di categoria all’agricoltura si sono incontrati per affrontare queste problematiche affinché si trovi una soluzione in quanto si possano contrastare gli episodi di sfruttamento. Da anni Cgil e Flai sono in campo proponendo tanti progetti che riguardano proprio la certificazione etica di qualità dove si garantiscono tutti i diritti e le tutele a chi lavora in questo settore.
La Fondazione Metes fornisce dei dati secondo i quali si notano un aumento degli occupati delle giornate lavorative in più di 3500 imprese con un trend positivo dell’export, e sottolinea una crescita superiore che aumenta di anno in anno. Un settore fiorente che purtroppo resta accostato dalla piaga dello sfruttamento e del caporalato.
Il commento
Proprio durante l’incontro Giovanna Basile, Segretaria Generale Flai Cgil Salerno espose sul problema:
“Sono passati altri anni dalla legge 199 e non è cambiato quasi nulla nella nostra provincia. In provincia di Salerno lavorano più di 27 mila braccianti, dati rilasciati dell’INPS, dove oltre il 40% sono lavoratori stranieri provenienti da varie nazioni. A questi numeri dobbiamo anche aggiungere che oltre il 60% lavorano a nero, dove purtroppo sono sottoposti più della maggioranza dei lavoratori. Tra le tante cause troviamo in primis lo sfruttamento, e i salari scarsi, dove ad esempio per 10 ore di lavoro si prendono dai 25 ai 28 euro, dove non conta la nazionalità, sia migranti che italiani lavorano per periodi che vanno da marzo a giugno e da settembre a dicembre.
Si lavora in condizioni critiche. Si vedono centinaia di pulmini in cattivo stato che si spostano in tutta la provincia con un carico superiore di lavoratori e lavoratrici avviati alla raccolta o alla semina. La nostra è una agricoltura di qualità che purtroppo ancora oggi è basata sullo schiavismo dei braccianti, soprattutto nei riguardi degli immigrati”.