Distillare le parole
Assisto a questa cannibalesca conversazione tra due donne in un bar, una di fronte all’altra. La prima donna parla a voce alta, si capisce che è estenuata e cerca di dire qualcosa. L’altra donna, molto grassa, non la fa parlare e a ogni parola aggiunge parole che la dirottano in questo povero scambio umano, verso contenuti emotivi che trasformano il senso comunicativo in conflitto. La prima donna si trova costretta a spiegare qualcosa che non ha detto e la seconda ad alimentare con altre informazioni aggressive la sua comunicazione paradossale. Urlano entrambe e anche se la prima è costretta a farlo perché forzata dalla regola che la seconda impone, è evidente lo spreco di tutto questo. Urlano, come se urlare conferisse valore al contenuto come se urlare servisse a superare una sordità che non è quell’acustica. Ci sentono benissimo ma quello che arriva è rumore, cattivo rumore. Ovviamente non stanno comunicando anche perché la seconda donna spezza sul nascere il tentativo della prima alzando la voce e non ascoltando nulla, se non alcune parole che sono nella tonalità funzionale per arricchire il malinteso e il non inteso. Non si guardano e la loro ira cresce sino a che la prima, più ragionevole, rinuncia e se ne va. Parole che non dicono nulla, parole per ingannare il silenzio, per evitare che nasca e così con lui la possibilità di capire e capirsi. Etimologicamente la comunicazione indica l’azione del mettere in comune e pragmaticamente uno scambio di comportamenti che ha come scopo il reciproco influenzamento.
Quindi il buon comunicatore è chi riesce a sviluppare dialoghi integrativi che uniscano le differenze e producano senso e pratiche di senso. Unisce, integra, influenza perché aiuta gli interlocutori ad attivare comportamenti di valore che non avrebbero avuto senza la comunicazione che sta avvenendo e questo per modificare comportamenti cognitivi, operativi, emotivi ecc. immediati o futuri. Questo è il senso dell’influenzamento in una prospettiva dove la possibilità di “cambiare” l’altro dipende dalla propria disponibilità a essere “cambiato” dall’altro ascoltandolo.
Certo quando due persone dialogano se esprimono differenze, sono in qualche modo in conflitto e si capisce la componente agonistica fisiologica, ma dovrebbe esserci la capacità di apertura data dall’ascolto che permette di evitare il conflitto distruttivo e, appunto, la comunicazione. Osservo ora l’incontro tra queste altre due donne. Sono fianco a fianco e si guardano negli occhi. Hanno, anche loro, un contenuto chiaramente conflittuale da mettere in comune, ma sono civili ed educate. La prima distilla le parole che sta dicendo, con un tono giusto e un volume appropriato, poi sta in silenzio per confermare e consentire l’ascolto all’altra e a se stessa. L’altra fa lo stesso. Sono affascinato dal loro silenzio, dall’eloquenza profonda che il silenzio contiene e capisco che il silenzio parla di più delle parole che parlano e anzi è il silenzio che genera la parola che parla perché il silenzio è ascolto attivo e solo l’ascolto può rendere la parola “intelligente”.
Se chi ascolta è capace d’ascolto non aggressivo e mantiene la propria identità, senza avere la contraddizione come scopo, si ha una cultura matura della contraddizione. Si realizza la capacità di riconoscere l’altro, in contraddittorio, e il suo diritto a esprimere identità e contenuti diversi. Allora in questo senso la conflittualità diventa vitale e consente cambiamenti integrativi, altrimenti è mortale e determina allontanamenti insanabili. Quante parole inutili o che producono l’effetto opposto di quello che vorrebbero, per incompetenza comunicativa e rumore che impedisce il silenzio.
Urlare fa ascoltare meno.