L’obsolescenza programmata, oggetti nati per durare poco

Era il 1901, quando a Livermore, California, veniva accesa una lampadina nella stazione dei vigili del fuoco. Ad oggi, quella lampadina è ancora accesa, un record, che oltre a valerle come titolo di “lampadina centenaria”, le ha permesso anche di acquisire una sorta di altare temporale: la lampadina, infatti, viene ripresa h24 da una web cam, attraverso la quale è possibile controllare la sua permanenza al mondo.
Eppure, a creare caos nel gap generazionale, è la disfunzione a cui siamo abituati tutt’oggi. Per meglio dire, alcuni elettrodomestici appartenenti ai nonni, sono ancora perfettamente funzionanti, a dispetto di alcuni prodotti moderni, sostituiti con frequenza.
Nessuna magia, o niente di tutto questo. A spiegarci tale cambiamento generazionale è solo una cosa: l’obsolescenza programmata.
Pillole di storia
Era la fine dell’800, quando la lampadina a filamento aveva riscosso un boom di acquisti. Poco tempo dopo, le aziende migliori iniziarono a cooperare per fornire ai consumatori un prodotto sempre migliore: ecco che nacque la lampadina con l’attacco Edison, o meglio, quello che ancora tutt’oggi permette alle lampadine led di funzionare. Bisogna aspettare il 1924, però, per assistere ad una vera e propria rivoluzione.
In quegli anni, infatti, circa 30 aziende provenienti da tutto il mondo, firmarono a Ginevra un accordo dal nome “Convenzione per lo sviluppo e il progresso dell’industria internazionale delle lampade elettriche a incandescenza”, ovvero quello che prenderà il nome di cartello industriale del settore.
Per gestire le numerose aziende partecipanti, si decise un decalogo di regole e leggi uguali per tutti, da qui nacque la compagnia Phoebus, con il nome colloquiale di Osram, Philips, General Electrics. Grazie a tale accordo, ogni membro avrebbe condiviso le quote di vendita, le aree commerciali, i prezzi, ma soprattutto gli standard da rispettare.
Uno fra questi era senz’altro “la durata”. Le aziende, decisero di produrre lampadine che non superassero le 1000 ore di durata, pena una severa sanzione. Da qui, si ricava il primo esempio di obsolescenza programmata, considerato che nel secolo precedente si producevano lampadine della durata di 2500 ore.
Il fenomeno fu spiegato da Arthur A. Bright Jr nel saggio “The Electric Lamp Industry”. La ragione principale, secondo l’economista, sarebbe di natura tecnico-economica, ovvero laddove c’è maggiore resistenza di un prodotto, la sua efficacia è inevitabilmente diminuita. In parole povere, lampadine di maggiore durata, emettevano una luminosità minore, a causa del deterioramento del suo filamento interno. D’altro canto, tale decisione, strizzò in modo considerevole l’occhio all’economia: una durata minore di un prodotto, costringeva il consumatore ad un acquisto più frequente, di fatto, le casse aziendali erano certamente più fiorenti.
L’obsolescenza programmata oggi
La prima volta la definizione obsolescenza programmata, comparve nella letteratura del 1932, quando il mediatore immobiliare Bernard London, propose che fosse imposta una legge alle imprese, riducendo la vita di un determinato prodotto, in modo da risollevare i consumi negli Stati Uniti, durante la grande depressione (crisi economica e finanziaria, che sconvolse l’economia mondiale alla fine degli anni venti).
Negli anni trenta, i ricercatori dell’azienda DuPont, riuscirono a creare un elemento dal nome nylon, ovvero una fibra sintetica molto resistente, adatta per creare calze da donna. Tuttavia, essendo un materiale molto resistente, esso non favoriva gli affari, e DuPont, incaricò i produttori della sua azienda di indebolire la fibra, in modo da indurre le consumatrici ad un acquisto più frequente.
Bisognerà aspettare diversi anni, quando Brooks Stevens, designer statunitense, vide nell’obsolescenza programmata una definizione diversa. Esso, infatti, intendeva, instillare nell’acquirente il desiderio di comprare qualcosa di più nuovo, prima del necessario, abbandonando di fatto, l’indebolimento di prodotti vecchi, per rendere più accattivanti le nuove creazioni: ciò induceva ad acquisti maggiori, pur non avendo subìto un malfunzionamento di quello precedente.
In seguito, Stevens, ha anche ideato, quello che ad oggi possiamo definire il concetto di riciclo: secondo lo statunitense, infatti, i vecchi prodotti, non sarebbero dovuti finire tra i rifiuti, quanto piuttosto rivenduti nei mercati di seconda mano, per permettere anche a chi aveva minore potere di acquisto, di possedere oggetti desiderabili.
Guai per Apple e Samsung
Era il 2018, quando le due aziende di maggioranza, per quanto riguarda la produzione di smartphone, sono finite nella trappola dell’obsolescenza programmata. Essi infatti, sono stati accusati, di ridurre volontariamente le prestazioni degli smartphone più vecchi, della loro stessa azienda, in modo da invogliare i consumatori, nell’acquisto di un modello successivo.
La multa, ricaduta su Apple e Samsung, tuttavia, puntava il dito sulla “mancata trasparenza nelle comunicazioni ai clienti in violazione degli art- 20,21,22 e 24” del Codice del Consumo. Nello specifico, le due aziende, rilasciavano aggiornamenti che provocavano gravi disfunzioni nelle prestazioni, accelerando il processo di sostituzione degli stessi.
Tuttavia, è davvero complesso, stabilire se la sentenza dell’Antitrust italiano contro Apple e Samsung, sia riconducibile a vere proprie macchinazioni volontarie e fraudolente delle aziende, poiché ad oggi la durata e il funzionamento ottimale di un prodotto tecnologico non è di facile determinazione. Ogni anno, infatti, sia Apple con iOS e Google con Android, rilasciano una nuova versione software, che deve ben conciliarsi con l’hardware.
L’azienda Apple, aveva prontamente, fatto ricorso al Tar del Lazio, il quale ha respinto il suo reclamo. La decisione del tribunale, infatti ha affermato che Apple, con gli aggiornamenti del firmware iOS 10 E 10.1.2 PER Iphone 6/6plus/6s/6splus, già acquistati, ne riducevano drasticamente le prestazioni. “Non prestando assistenza adeguata, Apple ha indotto, nei consumatori il processo di sostruzione precoce, ricavandone un vantaggio economico” queste le parole del Tribunale del Lazio. Decisione, che ad Apple, è costata 113 milioni di dollari per “pratiche commerciali ingannevoli. Ciò nonostante, non sarebbe la prima volta, Apple, ha infatti pagato in Francia, precedentemente una multa di 25 milioni, pagando inoltre, un risarcimento danni ai suoi clienti per una cifra complessiva di 500 milioni di dollari. Stesse motivazioni, ma multe diverse, per Samsung. L’azienda sudcoreana, infatti, deve un risarcimento che ammonta a 5 milioni di euro”.
L’ecodesign
A far fronte a tale incombenza, sono le direttive di ecodesign della Commissione UE, con la quale, impegna i produttori, ad utilizzare in fase di realizzazione tecniche che aumentino la durata dei prodotti e ne facilitino le operazioni di eventuale riparazione.
Il continuo ricambio di apparecchiature, infatti, genera cumuli di rifiuti tecnologici, senza pari. Quando si parla di ecodesign, il concetto principale, è quello di ridurre l’impatto ambientale di un prodotto, pensando nel momento della sua creazione, il suo intero ciclo di vita. Per meglio dire, un prodotto, creato secondo i principi di ecodesign, fa caso all’approvvigionamento e all’impiego delle materie prime riutilizzabili, biodegradabili, riciclabili e soprattutto non tossiche. Ogni attività di realizzazione deve rispettare la direttiva dell’UE sull’ecodesign (Direttiva 2009/125/CE).
L’ecodesign, strizza l’occhio all’economia circolare, ovvero un sistema economico pensato per potersi ricreare da solo. Lo scopo principale è aumentare notevolmente la sua durata, e laddove non sia possibile, di rendersi biodegradabile al 100%.
Per valutare attentamente, se un prodotto può essere realizzato a prova di ecosostenibilità, è possibile far uso di un metodo chiamato LCA (Life Cycle Assessment). Tale procedura standardizzata, valuta l’intera filiera produttiva, sottolineando le eventuali criticità, sostituendo le stesse, con processi eco sostenibili.
Esempi recenti di obsolescenza programmata
Di recente accadimento sono senz’altro le questioni riguardo Apple, Epson e HP. Nel 2003, Apple, infatti, ha messo in commercio iPod di seconda generazione con batterie fatte per durare pochissimi mesi. Epson, dal canto suo, ha permesso alle sue stampanti di spacciare cartucce mezze piene per vuote, obbligando il consumatore a comprarne delle nuove, ovviamente originali.
Per quanto riguarda HP, attraverso un aggiornamento firmware, tutti i computer aventi una batteria con efficienza scesa sotto al 50%, visualizzavano una fastidiosa schermata nera ad ogni riavvio. L’unico modo per ovviare a tale incombenza, è ovviamente la sostituzione della batteria, spesso fuori produzione, inducendo, di fatto, il consumatore all’acquisto di un nuovo pc.
Questi solo alcuni esempi, di una problematica che strizza l’occhio ad un acceso capitalismo. Dove accanto ad un ricambio di generazione, d’abitudini, voglie e necessità, si stagliano tutti quei prodotti “nati per durare poco”.