Il bivio dell’Europa
(Di Raffaele Cimmino) Le elezioni europee cadono in un momento difficile per un’Unione che fronteggia cambiamenti epocali. Prima la pandemia, che ha sconvolto gli equilibri economici e geopolitici rimettendo in discussione certezze consolidate con la crisi delle filiere globali. Poi l’invasione russa dell’Ucraina e la guerra che ne è seguita, che hanno fatto il resto sul piano delle risorse energetiche. Più degli sconvolgimenti collaterali pesa l’accelerazione di processi già in corso. L’ascesa della Cina come attore geopolitico oltre che economico ha spostato gli equilibri globali consolidatisi negli ultimi decenni. La spinta di molti paesi come l’India o il Brasile a emanciparsi dall’egemonia occidentale irradiata dal classico formato G7 è andata aumentando. Intanto, molti paesi africani stanno scivolando fuori dall’orbita europea e americana. Russi e cinesi si stanno attestando in Africa in posizioni vantaggiose sul piano militare ed economico.
Nel nuovo mondo l’Europa sembra un vaso di coccio. Dopo aver ben affrontato la pandemia con l’acquisto condiviso di vaccini e varato il Recovery Plan, che seppure in via dichiaratamente eccezionale infrangeva il dogma dell’austerità e apriva a una nuova logica di governance prefigurando persino una mutualizzazione del debito, è stata innestata la marcia indietro. Con il nuovo patto di stabilità si torna all’austerità. Un’austerità solo apparentemente meno pesante, in realtà più minacciosa di quella precedente perché più realisticamente esigibile. Nel frattempo l’economia europea boccheggia zavorrata com’è dalla politica di tassi alti della BCE, ferma al suo ferreo mandato di controllo dell’inflazione anche quando tutto dice che l’inflazione europea ha avuto origine dalla dinamica dell’offerta piuttosto che da quella della domanda. L’embrione di mutualizzazione sperimentato con il Recovery Plan sembra adesso ammissibile solo per il riarmo dei paesi europei. Intendiamoci, un passo avanti verso una difesa comune – al netto dell’autoinvocata primazia della Francia, unica potenza nucleare europea – sarebbe positivo. Si dà il caso però che l’opzione del riarmo ha favorito il declassamento del Green Deal europeo che, per essere efficace cioè per avviare la riconversione ecologica dei paesi dell’Unione, richiederebbe investimenti assai più ingenti del Recovery Plan per un tempo prolungato. Meno che mai sembra possibile avanzare in direzione di una politica fiscale comune. Siamo al punto in cui il piccolo Partito Liberale Tedesco, ora al governo ma a rischio di non superare le soglia di sbarramento alle prossime elezioni, ha fatto in modo che venisse reso più austeritario il nuovo patto di stabilità che, per come era stato ipotizzato all’inizio dalla Commissione europea, era decisamente più sostenibile rispetto a quello poi licenziato.
L’Europa, insomma, arranca nel mare dell’economia globale. Valga un esempio: Stellantis ha chiuso un accordo per importare auto elettriche cinesi in Europa, un vero paradosso per un grande produttore. E anche un campanello d’allarme per il futuro dell’auto elettrica europea. Al contrario, come sostengono gli economisti italiani Buti e Messori, occorrerebbe un grande piano per la dotazione di beni pubblici europei allo scopo di riconvertire il sistema produttivo del continente rendendolo competitivo con i nuovi forti attori globali. Ma tutto è stato messo tra parentesi. La previsione di un’avanzata delle destre europee, forze per le quali la UE deve restare solo una sommatoria di paesi e un bancomat da cui prendere quello che serve, non promette niente di buono. Ancora peggiore è la resa delle élite europee moderate e popolari all’eventualità di un patto politico con parte delle destre sovraniste per formare una maggioranza nel Parlamento europeo che sostenga la nuova commissione. Una carta su cui la Meloni ha puntato per arrivare a sedersi nel salotto buono in Europa e condizionarne le politiche. Il peregrinare come un qualunque candidato in tour elettorale di Ursula Von der Leyen, capofila dell’appeasement con i sovranisti e in cerca di riconferma come Presidente della Commissione, è grottesco e tuttavia illuminante. Lo slittamento a destra dei popolari, come sul caso dei migranti, rischia di rendere egemoniche le destre nazionaliste ancora prima che lo facciano le urne.
Eppure, nell’indifferenza pressoché generale, la campagna elettorale italiana sembra ripiegata su piccole vicende di corridoio. Sarebbe il caso di guardare la luna anziché il dito, perché rischiamo di svegliarci in un’Europa assai peggiore di quella che c’è, che già di per sé ha non pochi limiti e contraddizioni. Servirebbe sfidare la destra su questioni che ci riguardano da vicino – per dire, una politica estera europea oggi inesistente, il ruolo della UE nel Mediterraneo o, per stare a casa nostra, i problemi del Pnrr in rapporto al Mezzogiorno. E se si sfornasse qualche idea anziché ridurre le europee a un grande sondaggio sui partiti e i leader, sarebbe meglio.