Italia: un leader indiscusso nell’Unione Europea con i prodotti DOP e IGP (Di Attilio Manzo) Il comparto agroalimentare italiano è un pilastro dell’economia nazionale, con un valore di 512 miliardi di euro, equivalente al 17% del Prodotto Interno Lordo (PIL), tutto ciò nonostante la pandemia 2020, che ha causato una flessione del 2,5%, come riportato in un articolo su “Il Sole 24 Ore”. Un elemento chiave è l’aumento significativo della forza lavoro straniera nel settore, che ha raggiunto il 18,5% del totale nel 2020, superando la media economica nazionale dell’10,2%. Questo incremento costante è iniziato nel 2008, con l’adesione di Romania e Bulgaria all’Unione Europea, quando rappresentavano solo il 4,3% del totale. La pandemia ha influito negativamente su alcuni segmenti del settore primario, con il comparto ittico in prima linea, registrando una contrazione del 26% nei volumi e del 28% in valore. Anche gli agriturismi hanno subito una contrazione del 21%, mentre l’allevamento ha visto una diminuzione del 9%. Tuttavia, la spesa pubblica per l’agricoltura ha continuato a svolgere un ruolo essenziale, ammontando a circa 11 miliardi di euro, di cui il 64% proviene dai fondi dell’Unione Europea, garantendo stabilità al settore. L’export ha dimostrato di essere una fonte di resilienza. Nel 2020, la bilancia commerciale agroalimentare italiana ha segnato un risultato positivo per la prima volta, con un valore di 2,6 miliardi di euro, contrapposto all’equilibrio dell’anno precedente. In un’era in cui la sostenibilità e la transizione ecologica sono al centro dell’attenzione, il settore agroalimentare assume un ruolo chiave nella bioeconomia, contribuendo per oltre il 63% del fatturato totale. Questa posizione di leadership mette l’Italia in primo piano insieme a Germania e Francia nell’ambito europeo, consolidando il peso della bioeconomia nell’economia nazionale al 10,2%.
L’accordo che coinvolge “compensi in denaro in cambio di opportunità lavorative” ha sempre rappresentato una grigia area giuridica, ma ora una sentenza della Corte di Cassazione getta nuova luce su questo intricato scenario.
(Di Attilio Manzo) Recentemente, la Corte di Cassazione ha adottato una posizione differente rispetto alle precedenti decisioni. Con la sentenza n. 40980, la Corte ha dichiarato inammissibile un ricorso contro la decisione della Corte d’Appello, la quale ha stabilito che alcuni genitori avrebbero dovuto restituire il denaro ricevuto in cambio di promesse di lavoro per i loro figli, promesse che purtroppo non si sono mai concretizzate. Anche se la Corte d’Appello aveva riconosciuto che l’accordo violasse l’ordine pubblico, ha evitato di applicare l’articolo 2035, che prevede il diritto al rimborso delle somme ricevute in caso di prestazioni contrarie al buon costume. Questa norma, che si applica sia al “corrotto” che al “corruttore,” aveva fatto sì che il ricorrente richiedesse la sua applicazione poiché l’accordo era illecito, anche per il suo stesso contenuto.
La Corte di Cassazione aveva già abbracciato questa interpretazione in passato, ad esempio nella sentenza n. 8169/2018. In tale occasione, i giudici avevano rigettato il ricorso di un padre che aveva pagato 20.000 euro per garantire un impiego bancario a sua figlia. La Corte aveva giustificato questa decisione con il principio legale che afferma “in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis,” ovvero che in caso di contratto scorretto, non è legittimo richiedere gesti di “correttezza” come la restituzione della bustarella, a causa della reciproca illegittimità delle parti coinvolte.
Tuttavia, nell’ultima sentenza esaminata, l’intermediario coinvolto non è riuscito a dimostrare che i genitori si erano rivolti direttamente a lui, sottolineando che lui aveva solo facilitato il contatto con un’importante figura preposta all’assunzione. Questo ha fatto pendere la bilancia in favore dei genitori, e sia la Corte d’Appello che la Corte di Cassazione hanno stabilito che l’intermediario è tenuto a restituire l’importo, considerandolo come un ingiusto arricchimento. Inoltre, dovrà coprire le spese legali e versare il doppio del contributo unificato. Tuttavia, questa sentenza solleva un ulteriore interrogativo: fino a che punto un intermediario è coinvolto in un’operazione che altrimenti sarebbe stata illegittima?