Il doppio movimento europeo di Draghi e Letta
(Di Raffaele Cimmino) Per una curiosa coincidenza è toccato a due italiani, ex Presidenti del Consiglio, esporre un’analisi dello stato delle cose che riguardano l’economia, la più generale collocazione dell’ Unione Europea sullo scenario globale e sulle prospettive future. Cominciando con Draghi, si deve innanzitutto dire che l’ex Presidente della BCE, incaricato di redigere un rapporto sulla competitività dell’ UE, si è limitato in realtà a una compendiosa analisi sulla competitività dell’Unione. Tanto che a molti è sembrato, il suo, quasi un discorso di un candidato in pectore a presidente della commissione europea. Ruolo in cui molti, forse più in Italia che altrove, iniziano a vedere una possibilità per l’ex allievo di Federico Caffè, alla luce anche della debolezza della candidata uscente e fortemente aspirante alla riconferma, Ursula Von der Leyen.
Draghi ha sostanzialmente indicato le linee guida del suo rapporto che sono nel solco delle sue ultime dichiarazioni. Ha confermato cioè che le prospettive della UE diventeranno complicate se non affronterà i nodi di una competizione globale che impone di costruire economie di scala adeguate a quella di giganti economici come gli USA e la Cina. Innanzitutto, forte è la critica ai paesi europei che anziché una politica economica comune tendono a sottrarsi quote di mercato puntando sulla compressione dei costi e la deflazione salariale. Per Draghi è invece necessaria la creazione di grandi players su scala continentale per giocarsi la partita con i giganti globali dell’economia.
Due fondamentalmente i settori indicati come Beni pubblici intorno a cui articolare una nuova politica economica: la transizione ecologica e, tributo agli scenari bellici, quello della difesa. Infine, la capacità di approvvigionamento di beni strategici, come quelli energetici e le nuove tecnologie, concordato tra tutti i paesi dell’Unione sul modello dell’acquisto dei vaccini durante la Pandemia. Insomma, Draghi delinea lo scenario di una UE27 sempre più integrata e sembra suggerire, pur senza dirlo esplicitamente, che occorre completare le riforme in direzione dell’integrazione dell’unione fiscale, rendendo così strutturale la politica che, con il Recovery plan, si è adottata in modo contingente, allo scopo di rilanciare l’economia dopo il trauma della pandemia. Per Draghi, insomma, il problema della crescita dell’economia europea richiede una nuova prospettiva proporzionata agli attori dell’economia globale, ingenti investimenti nei settori più avanzati e una più profonda interconnessione tra le economie nazionali. Non sarebbe stato male anche un accenno a quei beni pubblici come la sanità e l’istruzione che pure con il capitale sociale rendono più produttive le società.
Complementare alla posizione di Mario Draghi è il Rapporto di Enrico Letta sul Mercato Unico Europeo dell’UE che l’ex premier ha preparato per il Consiglio Europeo.
La mancanza di un mercato finanziario unico, senza barriere interne, con regole e vigilanza comuni, in grado di finanziare l’economia europea resta per Letta, come per molti osservatori, un punto di debolezza molto grande. La leva della finanza europea integrata diventa, a questo punto, prioritaria per affrontare le grandi sfide che si pongono di fronte alla UE: la transizione ambientale, quella digitale, il nodo della difesa comune europea, e un nuovo round di allargamento dell’Unione. Si tratta, secondo Letta, di preservare l’apparato industriale europeo, di innovare il sistema produttivo, di rispondere alle sfide dell’intelligenza artificiale, e di centralizzare l’approvvigionamento dalle materie prime e rare.
Tutto questo però ha dei costi. Si calcola che per la sola transizione verde e digitale siano necessari circa 750 miliardi all’anno, l’intero ammontare del Recovery plan post-pandemico, fino al 2030. Sembra evidente, come dice il rapporto, che le risorse europee non bastano. Il bilancio Ue vale meno di 1.100 miliardi per 7 anni, se ne aggiungono solo gli 800 del Next Generation EU fino al 2026.
Letta propone di realizzare entro il 2026 un “safe asset” unificato centralizzando tutte le emissioni di obbligazioni UE per convogliare i risparmi privati nel finanziamento dell’economia reale. Nell’Ue, infatti, ci sono 33 mila miliardi di risparmi privati, e ogni anno circa 300 miliardi lasciano l’Europa per alimentare strumenti finanziari negli USA. Risparmio europeo che torna in Europa sotto forma di investimenti per finanziare l’acquisizione di importanti asset europei. Una situazione, sostiene Letta, da superare. Naturalmente non sfugge che la creazione di un asset unico per la finanza come quello suggerito dall’ex premier italiano condurrebbe verso l’emissione di un debito comune aiutando anche ad abbattere le resistenze della Germania e dei paesi frugali, cosa difficile ma possibile data la posta in gioco.
Insomma, sia Draghi che Letta, come succede a chi non né impegnato direttamente nel gioco politico sono stati liberi di indicare i punti deboli dell’assetto europeo e di suggerire soluzioni anche scomode. Il punto è che, quando si torna alle forze in campo, appare difficile immaginare una massa critica in grado di applicare queste ricette. A maggior ragione se le prossime europee segneranno, come dicono le previsioni, un avanzamento delle destre sovraniste. Se così sarà, è probabile che si andrebbe in direzione opposta a quella suggerita dai due rapporteurs italiani. E l’Unione europea diventerebbe più debole.