(Di Fulvio Tizzano)
I dazi, Trump ed il suo nuovo deal che sta facendo parlare il mondo intero. Proviamo a fare un punto sulle cause e sul senso di ciò che sta accadendo.
I dazi sono la misura dei costi alle dogane dei prodotti che circolano tra paesi. Trump sostiene che il suo paese importi troppo rispetto a quanto esporti e che gli USA abbiano sinora consentito alle merci di altri paesi di entrare in USA pagando dazi storicamente più bassi di quelli applicati da altri paesi alle merci di provenienza USA. Con un algoritmo di non facile lettura, ha evidenziato che esiste un enorme scompenso della bilancia commerciale, escono dagli Usa molti meno prodotti americani rispetto a quelli che entrano negli USA da altri paesi.
Oggi ci chiediamo se Trump sia un imprenditore prestato alla politica che alza il tiro, alla stregua di un abile compratore o venditore che con le sue scelte rischia di compromettere i pilastri dell’economia mondiale oppure se la sua strategia poggi su fonti e teorie che alla lunga si riveleranno coerenti.
Di certo tornando indietro di qualche anno la ricetta del protezionismo fu adottata in un dato momento storico anche da un certo John Maynard Keynes, uno dei più grandi economisti del ventesimo secolo. Al Comitato Macmillan per le finanze e l’industria, istituito per offrire consulenza economica al governo britannico all’inizio della Grande Depressione, Keynes propose dazi sull’importazione di beni esteri e sussidi per gli investimenti interni. Alla domanda se l’abbandono del libero scambio valesse i potenziali effetti migliorativi della protezione, Keynes rispose: “Non ho raggiunto un’opinione chiara su dove sia l’equilibrio del vantaggio“, ma vedeva il merito dei dazi come un sollievo dal crollo economico. “Ho una paura spaventosa del protezionismo come una politica a lungo termine“, dichiarò, “ma non possiamo permetterci di avere sempre lunghe vedute… la domanda, a mio parere, è fino a che punto siamo disposti a rischiare svantaggi a lungo termine per ottenere un aiuto nella situazione immediata”.
Correva la Grande Depressione da cui il mondo occidentale sarebbe emersa solo a partire dal 1933 quando, con la vittoria alle elezioni presidenziali di Franklin Delano Roosevelt, si inaugurò una nuova politica economica e sociale che prese il nome di New Deal.
Trump, ipotizza un new deal?
L’America è uno dei paesi più indebitati al mondo. Gli americani quasi non conoscono il risparmio. Spendono più di ciò che guadagnano. Un protezionismo statale indotto dai dazi genererebbe un salario reale più basso riducendo la spesa. Al contempo lo stimolo trumpiano alla produzione nazionale spingerebbe a produrre e spendere in USA, favorendo aziende e occupazione. Dunque, di sicuro Trump non ha pescato dal cilindro una ricetta del tutto irrazionale o peggio sconosciuta. Se non fosse però che oggi siamo nel terzo millennio e la globalizzazione ha cambiato parte delle regole del gioco dagli anni ’30 ad oggi.
Già, la Globalizzazione, una parola che suona come un postulato, non si discute anzi si ammette a prescindere.
Negli ultimi anni, 40 milioni di containers si sono spostati tra i paesi del globo. In nome della globalizzazione UE e USA hanno visto popolazioni di lavoratori perdere il posto e migliaia di aziende chiudere, interi settori delle economie andare in crisi, sparire. Forse, dovevamo chiederci non meno di venti…forse trenta anni fa se una oculata politica dei dazi avrebbe potuto arginare la disparità concorrenziale tra la fabbricazione a Bergamo e quella Shenzhen? Una politica protezionistica UE e Usa avrebbe potuto moderare questa polarizzazione repentina, distruttiva e dolorosa della produzione industriale mondiale? I dazi avrebbero in quel caso protetto le produzioni made in UE e USA?
Di certo non è accaduto, anzi abbiamo continuato ad indossare t-shirt ignorando che in tali prodotti c’era lo sfruttamento di lavoratori, talvolta bambini, lo smaltimento senza regole degli scarti, condizioni di lavoro impensabili nel mondo occidentale e la desertificazione delle produzioni UE e USA.
Ma torniamo a Trump, alla sua ricetta: quello che forse si sta trascurando è la “scelta” degli americani.
Gli analisti si concentrano sui dazi, sulle loro misure quantitative, ma il tema forse gravemente sottovalutato è la reazione del consumatore americano al “messaggio trumpiano”. Dazi al 20%, 39%, 10% – percentuali che avranno un impatto concreto e visibile sulle esportazioni verso gli USA ed i produttori mondiali – dovranno sicuramente farci fare bene i conti. Il maggior costo dei beni in ingresso negli USA potrà farne calare i consumi .
Ma cosa pensano i consumatori a stelle e strisce del messaggio trumpiano? Poco più di 77 mln di votanti americani hanno votato per Trump a fronte di 75 mln che hanno scelto Kamala Harris. Trump sta dicendo agli americani anche e soprattutto “comprate beni prodotti in USA. Comprate dai produttori americani”. Al di là dell’algoritmo dei dazi di Trump che preoccupa le banche centrali di tutto il mondo, quello che potrebbe pesare di più è il suo messaggio agli Americani, oltre 300mln di abitanti.
America First!
Chi potrà acquistare senza problemi un vino italiano al costo aumentato di 6 dollari, probabilmente sceglierà di comprare un vino della California. Perché significherà dare coerenza alla scelta elettorale. Sarebbe un grave errore trascurare il peso delle scelte delle persone, un peso di gran lunga superiore a quello degli algoritmi, dei dazi e dei calcoli matematici.