Fiducia nei social: è l’inizio della fine?

Nelle ultime settimane sta tenendo banco su tutti i giornali lo scandalo che ha travolto Facebook per quello che è stato definito il caso “Cambridge Analytica”. Un uragano che ha scosso alla base la fiducia verso il social network.
Ma chi è Cambridge analytica? Cosa ha fatto per far montare un caso di cui parla tutto il mondo? E quanto c’entra Facebook? E’ perché nelle ultime 2 settimane ha bruciato qualcosa come 100 miliardi di dollari?
Tutto inizia qualche anno fa e precisamente nel 2014 quando un giovane ricercatore di Cambridge, Aleksandr Kogan, chiede l’autorizzazione per recuperare informazioni sugli utenti americani di Facebook ai fini di una ricerca accademica, tramite un’applicazione che si chiamava “thisisyourdigitallife” (questa è la tua vita digitale). Per accedere a questa applicazione bisognava fare il login con le credenziali di Facebook e “concedere” all’applicazione il diritto di acquisire le informazioni contenute nel profilo. E’ questo il peccato originale che compiamo costantemente quando accettiamo di utilizzare applicazioni che ci vengono proposte come gratuite mentre in realtà le paghiamo con qualcosa che sta assumendo sempre più valore: i nostri dati.
All’applicazione di Kogan aderirono poco meno di 300 mila persone (ma secondo alcuni avrebbe scalato fino a 51 milioni), per le quali l’applicazione aveva il diritto di accedere a tutte le informazioni contenute nel profilo: like, contatti e preferenze. Fino a questo punto niente di illegale perché fino al 2014 non era vietato raccogliere queste informazione. I problemi nascono quando entra in gioco la società Cambridge Analytica a cui vengono ceduti i dati, e per i quali sembra siano stati pagati 800 milioni di dollari, infrangendo i termini di servizio di Facebook che vieta di cedere le informazioni raccolte a società terze.
Ma chi è Cambridge Analytica?
“Cambridge Analytica uses data to change audience behavior” come si legge dall’incipit del sito è una società specializzata nell’analisi dei dati dei social, al fine di costruire delle campagne di marketing mirate in base alle classificazioni degli utenti. Campagne così mirate ed efficaci da modificare, addirittura, il comportamento di chi ne è l’obiettivo. La compagnia è finanziata dal miliardario americano Robert Mercer, sostenitore di Donald Trump, e guidata da Alexan Nix. Ma la spina dorsale della società è stata eretta da Steve Bannon, che come cita wikipedia è un giornalista, politico e capo stratega di Donald Trump. L’obiettivo di Cambridge Analytica era quello di analizzare i profili del campione di dati in loro possesso per proporre messaggi mirati al fine di favorire l’elezione di Trump. Quindi, se dai post analizzati si deduceva un’avversione agli stranieri, venivano proposti banner che inneggiavano alla cacciata degli immigrati o di abbassare le tasse se il profilo apparteneva ad un libero professionista.
Quanto davvero questi messaggi abbiano contribuito all’elezione di Trump, non è facilmente dimostrabile. Ma questa vicenda dovrebbe far riflettere su quanto valore hanno i nostri dati e come possano essere sfruttati anche per le decisioni che hanno un’influenza planetaria come le elezioni del presidente degli Stati Uniti. Ma il coinvolgimento della società di analisi è molto più ampio e coinvolge addirittura la Russia di Putin tramite la figura di Michael Flynn, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump ed estremamente vicino alla Russia, fino al punto di essere considerato ricattabile e destituito dal suo ruolo. Flynn avrebbe avuto un ruolo da consigliere proprio in Cambridge Analytica e questo intreccio ha fatto pensare che una parte del gigantesco database sia arrivato anche in Russia.
Da questa vicenda Facebook ne esce piuttosto malconcia. La società fondata da Zuckerberg ha perso in borsa, in una settimana, qualcosa come quasi un quarto del loro valore (22%) pari quasi a 100 miliardi di dollari di capitalizzazione. C’è stata un’ondata di cancellazioni di account da parte di VIP quali Elon Musk, magnate americano fondatore di Tesla alla testata Playboy o al gruppo musicale dei Massive Attack. Anche il fondatore di whatsapp, applicazione acquistata da Facebook, ha lanciato l’hashtag #deletefacebook e diverse agenzie di controllo internazionali, compresa l’italiana AGCOM, hanno chiesto spiegazioni al CEO di Facebook. Mark Zuckerberg si è assunto candidamente tutte le responsabilità, dichiarando che sono stati commessi degli errori e che il 2018 sarà l’anno per riparare agli errori commessi.
Qual è la colpa principale di Facebook?
Sostanzialmente quella di non aver controllato cosa accadeva ai dati che venivano concessi alle applicazioni, considerando che ne fosse a conoscenza già da alcuni anni e di essersi “fidata troppo” senza fare i dovuti controlli ma, cosa ancor più grave, di non aver avvisato gli utenti quando è venuta a sapere della fuga di dati, e stiamo parlando del 2015. Dal punto di vista degli utenti, quello che insegna questa storia è che i nostri dati hanno un valore e le relazioni che i dati hanno tra loro ne amplificano esponenzialmente tale valore. D’altra parte il crescente interesse verso i Big Data da parte di aziende ed istituti di ricerca indica, appunto, che la scommessa per il futuro sarà sul possesso e l’interpretazione. Abbandonare i social in segno di protesta sembra una scelta inutile e anacronistica, anche perché nessuno ci assicura che vengano eliminati realmente. Ciò di cui abbiamo bisogno è di garanzie sui trattamenti dei dati e di un autorevole controllo dei dati personali.