Come le presidenziali americane ci riguardano
(Di Raffaele Cimmino) Con il voto del Super-Tuesday, tenutosi in 16 stati americani, si è celebrato lo snodo del complesso procedimento che porterà gli Stati uniti a eleggere il suo nuovo presidente. Chiunque sarà, tornerà alla Casa Bianca per la seconda volta. Sia che venga confermato il presidente in carica, Joe Biden, sia che riesca a ritornarci Donald Trump, dopo essere stato il 45° presidente della storia americana ma aver dovuto lasciare la carica con la coda drammatica dell’assalto al Campidoglio da parte dei suoi sostenitori. I sondaggi vedono in svantaggio Biden, tra i cui elettori vi sono non pochi dubbi circa la sua integrità fisica e intellettuale, data la sua età abbastanza avanzata (compirà 82 anni il prossimo novembre). Trump, che ha visto la Corte suprema rimuovere il più grosso ostacolo alla candidatura, il rischio di non poter concorrere per l’accusa di aver tentato l’assalto alle istituzioni dopo la mancata rielezione del 2020, sembra potercela fare di nuovo.
Confermato lo scenario ampiamento scontato delle primarie, si tratta di capire come si sposteranno quei margini elettorali che possano far pendere la bilancia per l’uno o per l’altro. Biden, per la sua condotta poco decisa sulla vicenda palestinese seguita all’attacco del 7 ottobre e alla conseguenza risposta israeliana su Gaza, rischia di perdere il voto dei giovani, delle minoranze arabe e dei ceti intellettuali più progressisti. Proverà però a insidiare il bacino repubblicano più tradizionale, quello che non si è fatto irretire dal messaggio trumpista e che si è manifestato nel voto all’altra candidata repubblicana, Nikky Haley, ora ritiratasi. Trump tenterà invece di fare il pieno del suo elettorato che pesca a piene mani nella working class degli stati centrali, contando sul fatto che l’andamento positivo dell’economia e la buona ricaduta dell’occupazione non hanno ancora consentito di recuperare un potere d’acquisto accettabile.
Naturalmente, quando viene eletto un nuovo Presidente degli Stati uniti, la questione non riguarda solo quel paese. Stavolta, anzi, sarà ancora meno indifferente per il resto del mondo che sia l’uno o l’altro il prossimo inquilino della Casa Bianca. Le ricadute su almeno due punti critici, la guerra in Ucraina e l’attacco israeliano a Gaza, saranno rilevanti. Se fosse rieletto Biden la continuità sarebbe scontata. Significherebbe continuare a sostenere la difesa ucraina stando ben attenti a non superare un limite tale da generare un’escalation non controllabile. La linea rossa, naturalmente, è l’entrata nel conflitto con la Russia dell’Alleanza atlantica. Viceversa, Trump, assecondando l’umore di buona parte dell’elettorato repubblicano, potrebbe optare per una politica estera isolazionista, arrivando ad un appeasement con Putin che potrebbe così stabilizzare la sua posizione in Ucraina. E’ questa una possibile svolta molto tenuta dall’Unione europea, che, non a caso, sta ragionando su come rafforzare una difesa autonoma e un’industria degli armamenti autosufficiente. Per quanto riguarda Gaza, il tentativo di Biden è, da settimane ormai, quello di frenare la portata dell’attacco israeliano e di limitare il numero delle vittime civili che è arrivato all’esorbitante cifra di oltre trentamila morti, la maggioranza delle quali donne e bambini, per arrivare a una tregua che contempli la restituzione degli ostaggi israeliani in mano ad Hamas e l’afflusso di aiuti umanitari per i palestinesi di Gaza. Viceversa, la vittoria di Trump potrebbe lasciare carta bianca al governo israeliano. Non a caso il premier Netanyahu tenta di continuare fino a quello che dichiara essere l’obiettivo finale, la completa distruzione dell’infrastruttura politica e militare di Hamas. In sostanza guadagnare tempo sperando nel ritorno di Trump alla Casa bianca.
Dietro queste vicende è appena dissimulata la vera posta in gioco, il confronto con le potenze che una volta si sarebbero dette emergenti, la Cina, e il gruppo dei paesi BRICS, che sembrano voler costruire un’alternativa all’egemonia occidentale che ha segnato la prima fase della globalizzazione. Il confronto con la Cina, in particolare, sembra riguardare lo stesso ruolo politico e militare degli Stati uniti per come si è configurato perlomeno a partire dalla caduta dell’Unione sovietica.
Se Biden, nella tradizione del progressismo democratico, non sembra deflettere da un confronto deciso che lasci tuttavia margini ragionevoli alla politica, meno chiaro è l’atteggiamento che avrebbe Trump una volta tornato presidente in uno scenario molto diverso da quello che ha visto nel suo primo mandato.
Insomma, da gennaio del prossimo anno sarà più chiaro che direzione prenderà la politica internazionale e la sfida per determinare gli equilibri globali. L’impressione è che la differenza tra i due scenari sarà potenzialmente di non poco conto e, in ogni caso, gravida di rischi.