Napoli intravista e effetti collaterali
“ I sogni sono opera di gnomi che lavorano la notte, fabbri che forgiano labirinti, artigiani che non smettono mai di creare forme”.
I luoghi hanno un’anima che si rivela se si cerca con mappe intangibili esplorando una topografia fatta di sentimenti e memorie, figure e forze, fantasie e pensieri.
Occorre entrare, spingerci dentro e conoscere quello che il daimon del luogo ci dice, a cominciare dalle sue ferite che non possono, non devono, essere cancellate dal tempo.
Certi luoghi possiedono abbondanza estetica e storica, permettono immaginazioni di altre vite che trovano la fonte nell’analogia, in una speciale identificazione con «qualcosa d’altro e, qualcun altro».
Fanno nascere e sviluppare comunicazioni che prendono spunto da oggetti o ricordi, inesistenti ma fantasticati, d’altri tempi e altre vite.
Questa è la traccia che caratterizza questo luogo, facendolo diventare unico, anche dolorosamente .
Occorre lasciarsi guidare (da e verso) sensazioni, avvertire e ascoltare una simultaneità d’atmosfere che poco a poco diventano più intense per soliloqui o dialoghi avvincenti, per forme di connessioni emotive.
La storia di questo luogo dove vivo legata al convento di san Francesco al monte, del 1600, è lunga e affascinante.
Il convento ha origine da un fraticello dell’ordine dei frati minori conventuali, frate Agostino Miglionico, il quale si costruì nelle viscere delle montagne una cella, che divenne chiesa intitolata a santa Lucia vergine.
Qui oltre ad un santo ci vivevano le monache di clausura e anche Santa Maria Francesca delle cinque piaghe che pronunciò i voti quando era giovanissima a soli sedici anni morì e fu seppellita all’interno del complesso (si dice nella casa in cui vivo).
Scendo lentamente lungo i grandi scaloni del palazzo e voglio perdermi, come il solito, intenzionalmente nel labirinto dei quartieri spagnoli.
La perdita come progetto contiene la certezza che in ogni vicolo troverò una sorpresa: in via teatro nuovo un gruppetto di donne fuori di casa, come in un film, sedute intorno parlano fitto gesticolando, più avanti un materasso per terra in un angolo, da un balcone un cinguettare di uccellini, in un altro vicolo quattro ragazzi dalla fronte bassa che mi guardano, uno di loro ha uno sguardo profondo e triste.
Via lunga del gelso è un luogo in cui nel secolo scorso erano concentrate 300 case chiuse e ora è piena di ristorantini e negozi carini come Via Speranzella con i pizzaioli che stanno impastando la farina.
La musica qui, forte, a tratti bella, finestre e case aperte, spazi privati improvvisati sulla strada. Un’estensione della propria abitazione che diventa una grande rete sociale.
Una donna fa scendere un cestino con una fune da casa sua e il venditore di verdura lo riempie, un ragazzo sta vendendo giornali, passo di fronte ad un laboratorio di pasticceria e pane .
Una ragazza bellissima mi supera veloce e lancia uno sguardo di fuoco.
Tutto è molto più pulito di come si possa immaginare; occhi che sento addosso come denti, odori, a volte profumi, che assalgono le narici, rifiuti (variopinti) accantonati, qualcuno urla da qualche parte; cappelle con foto di morti e con fiori, bigliettini, immagini sacre, amuleti, oggetti. Sensazione di leggero pericolo sempre possibile.
Un sentimento di straordinarietà: scendere nei vicoli è come fare un salto nella storia.
Due bambini di cinque o sei anni sfrecciano con una strana potente piccola moto giocattolo (ma non è un giocattolo) lungo la strada stretta facendo urla selvagge come se dovessero assalire la diligenza e mi gridano qualcosa che non capisco.
Cammino e ascolto e vedo, poi immagino.
Entro nel palazzo un po’ cadente, dove aveva vissuto Leopardi.
Una targa logorata lo ricorda con poca importanza.
Provo a immedesimarmi: sono lui che entra nella sua casa e chiudo gli occhi.
Mi accorgo che il portinaio ha smesso di spazzare il cortile e mi guarda un poco insospettito.
Poi, dopo qualche minuto, esco e scendo ancora verso il centro.
Un altro portone mai notato prima è aperto, entro e dopo qualche istante di buio sbocco in un grande patio pieno di sole.
In un angolo ricurvo un vecchio che, “sommerso” da una “montagna” di fiori, ne sta componendo con pazienza dei mazzi.
Quasi ipnotizzato da un sentimento d’irrealtà mi avvicino e gli chiedo con tono imbambolato cosa stia facendo.
Lui alza gli occhi e con naturalezza risponde che sta lavorando, io poi chiedo se i fiori li venda e, lui, guardandomi ora come si guarda un bicchierino di carta, dice “vulesse a Maronna” liquidandomi con una certa impazienza.
Allora gli consegno 15 euro e mi consegna un mazzo di fiori incredibili e meravigliosi.
Chiedo di conservarmeli che poi passerò dopo.
Dei giapponesi, poco più in là uomini di colore, guardo dentro un “basso”: una donna in sottoveste sta facendo colazione e mi osserva ironica.
Poi un angolo della via che arriva verso Toledo, un’anziana prostituta chiede di fermarmi qualche minuto, io la ringrazio e preciso che ho un appuntamento al Gambrinus e sono in ritardo.
Lei insiste affinchè faccia una pausa in sua compagnia, ma, sempre gentilmente, mentre continuo a camminare, rifiuto.
Quando oramai sto per svoltare, sento che con aria malinconica ma piena di rimprovero mi dice “ facitilo almeno per cortesia”.
Continuo a sentirmi in qualche modo privilegiato, “sento” i rumori forti, gli odori, il disordine cromatico che balza agli occhi, la luce intensa con spazi bui nei palazzi cadenti che conservano mille e poi mille eventi grandi e piccoli e sento: “Chissà chi aveva vissuto in questo palazzo del cinquecento, chissà cosa pensava e cosa sognava, di che cosa aveva paura e chi aveva amato.
“Alzo lo sguardo verso una finestra con vasi di fiori e ora un bambino dagli occhi scurissimi appoggiato, mi osserva, mio complice in questo labirinto, in questo gioco a nascondersi o come vittima possibile.
Arrivo in Piazza Carità, mi fermo a un bar e chiedo un caffè, penso che io ho vissuto un’ora di qualità della vita che pochi possono vivere e l’ho vissuta perché vivo qui in questa città “esagerata”piena d’amore e così poco amata.
Una città che lacera perché i progetti di bruttezza e l’arroganza dei poteri stanno da molto tempo affermando dinamiche d’imbarbarimento che costringono, come sto facendo io, a immaginare altri luoghi, altri tempi per trovare intensità che sembra non possano entrare in prospettive presenti e future.
Stanno costringendo a pensare di fuggire in altri luoghi per poi alimentare la nostalgia di una città che c’è stata e che poteva esserci ancora.