Niente aborto? La Disney non ci sta
Dopo la restrittiva legge in Alabama anche la Georgia si affida a normative antiabortiste. Ma la Disney minaccia di trasferire le sue produzioni in Stati caratterizzati da una politica più liberale.
Agli inizi di maggio, infatti, Brian Kemp, governatore repubblicano dello Stato, ha firmato il Living Infants Fairness and Equality (LIFE) Act, una norma che prevede che il divieto di praticare l’aborto nasce non appena risulti possibile percepire il battito del bambino, ossia più o meno intorno alle sei settimane di gestazione. L’entrata in vigore è prevista per il mese di gennaio del 2020.
Ma Bob Iger, amministratore delegato della Disney, ritiene che una tale legge renderebbe difficile continuare a mantenere le produzioni in Georgia perché “molte persone che lavorano per la Disney non vogliono lavorare lì”.
Ad opporsi alla norma non solo la Disney. Anche Netflix ha annunciato si è schierata contro la norma antiabortista: Ted Sarandos, direttore creativo del colosso della streaming tv, ha dichiarato: “Se mai dovesse entrare in vigore, dovremmo ripensare al nostro intero investimento in Georgia”. Inoltre attori del calibro di Ben Stiller, Amy Schumer, Alec Baldwin hanno inviato una lettera di protesta al governatore dello Stato.
Strumenti di protesta che, però, non sono graditi nemmeno dai democratici dello Stato. Stacey Abrams, candidata sconfitta dall’attuale governatore alle ultime elezioni, ha affermato che si tratterebbe solo di modi per togliere denaro alla Georgia e spogliarla dell’energia necessaria per contrastare in modo effettivo la legge.
La Georgia, ancor più della California, è considerata un paradiso fiscale del mondo del cinema essendo previste agevolazioni fiscali fino al 30% per i costi di produzione. E’ proprio qui che la Disney ha recentemente girato film del calibro di Black Panther e Avengers e che sono stati realizzati alcuni dei film o delle serie tv di maggior successo: da The Walking Dead a Stranger Things, dal remake di Jumanji all’ultimo Spider-Man. Un avamposto di registi, tecnici, produttori, attori la cui eventuale “ritirata” creerebbe una ferita economica a uno Stato che sta già subendo un forte fenomeno di spopolamento e dove si prevede che, entro il 2026, la crescita lavorativa sarà dimezzata rispetto a quella attuale. Un danno derivante da una deriva conservatrice che non piace al mondo dello spettacolo e alle associazioni dei diritti civili. Tra proteste, campagne social, minacce di boicottaggio l’America più liberale si sta facendo sentire in vista dell’analisi delle normative da parte della Corte Suprema.