Cambiamento climatico, una prospettiva futura
Il dibattito sul cambiamento climatico ha monopolizzato le pagine di tutti i più importanti quotidiani nel corso dell’ultima settimana, in seguito all’iniziativa dei Fridays for Future. L’iniziativa, di carattere globale, ha portato in piazza circa un milione e mezzo di persone in 125 paesi di tutto il mondo, 208 le manifestazioni solo in Italia, per lo più composte da giovanissimi. Il volto della protesta è quello di Greta Thunberg, ragazza sedicenne svedese affetta da sindrome di Asperger, che è salita alla ribalta dopo gli interventi alla conferenza sul clima di Katowice del 25 gennaio scorso. Il suo obiettivo e quello dei suoi sostenitori, è di sensibilizzare le persone riguardo i rischi del cambiamento climatico, denunciando le politiche ambientali “immature” dei capi di stato dei paesi della comunità internazionale.
Nell’ultimo decennio in realtà il problema dei cambiamenti climatici è più volte arrivato sui banchi degli organi internazionali, a partire, nel 2005, dall’approvazione del Protocollo di Kyoto, che, nonostante i gravi limiti mostrati già in fase di sottoscrizione (assenza della firma degli USA, disinteresse di paesi emergenti come Cina e India), è stata una pietra miliare nel campo della lotta ecologista. I risultati raggiunti, ritenuti troppo esigui dalla comunità internazionale, hanno allora portato alla sottoscrizione dell’Accordo di Parigi nel 2015, primo patto universale vincolante, che mira a limitare a 1,5°C l’innalzamento della temperatura entro il 2050, prendendo come zero dell’orologio climatico il periodo preindustriale (per il momento si è arrivati ad un innalzamento di 1,1 °C).
La stessa natura del problema tuttavia, rende molto difficile prevedere gli effetti di qualsiasi manovra, sia in termini di reale efficacia che di costi, essendo il fenomeno un fenomeno che darà i suoi risultati più vistosi nel corso del lungo periodo e con conseguenze estremamente diversificate in base al luogo; Certo è che gli influssi del cambiamento climatico in senso lato hanno effetti su ogni ambito della vita di un paese, basti pensare al fatto che le migrazioni dal continente africano a quello europeo trovano nella desertizzazione e desertificazione del Subsahara la loro principale causa d’essere.
Con le dovute cautele, il Rapporto di Nicholas Stern del 2006, aveva quantificato il costo dell’impegno per arrestare il cambiamento climatico compreso tra il 5% e il 15% del PIL mondiale, con una distribuzione più importante nella seconda metà del secolo; per adesso si parlerebbe solamente di un 2-3%. Secondo le stime più recenti i costi delle manovre sono cresciuti sensibilmente, basti pensare che solo per il problema gas serra sarebbe necessario impiegare l’1-2% del PIL mondiale, misura, tra l’altro, da prendere entro pochi anni da ora per evitare di superare la soglia di non ritorno. Il problema insito all’interno di questa conversione in senso ecologico dell’economia risulta nel fatto che drenare fondi all’interno del progetto è una manovra che avrà effetto immediatamente, mentre i suoi frutti si potranno cogliere solo nel lungo periodo.