La grande gelata dell’industria italiana

Nessuno si aspettava dati particolarmente buoni sull’economia italiana, ma il resoconto dell’Istat sulla produzione industriale equivale a una secchiata di acqua fredda. I dati sono inequivocabili: a dicembre la produzione industriale perde il 7,1% rispetto al dicembre dell’anno precedente, in pratica solo ai tempi del Covid si sono registrati dati peggiori. Si arriva a 23 mesi consecutivi di calo della produzione manifatturiera, il che dovrebbe far scattare l’allarme rosso. Quello che impressiona è il calo simultaneo in tutti i settori, dai mezzi di trasporto (-23,6) al tessile (-18,3) passando per la metallurgia (-14,6). Clamoroso è poi il calo del settore auto che arriva al -43%, vuol dire che la produzione automobilistica italiana passa da 700mila veicoli prodotti a poco più di 300mila. Dati che mostrano un’estrema debolezza anche dal lato degli investimenti, che risalta particolarmente nel settore dei macchinari (-17,4) con una perdita di 5 miliardi di fatturato nel 2024.
Insomma, se si sta ai dati, l’Italia rischia un processo irreversibile o quasi di deindustrializzazione e una stagnazione che non si ricorda negli ultimi decenni. Poco conforta che i dati dell’economia europea nel suo complesso siano tutt’altro che positivi. Sicuramente l’Italia paga il fatto che il sistema industriale del centro-nord sia sostanzialmente tributario come subfornitore delle economie nordiche, di quella tedesca in primo luogo. Il rallentamento dell’economia tedesca produce quindi effetti immediati sulla nostra tenuta economica. Il danno diretto è calcolato nella misura di 3,6 miliardi di diminuzione dell’export. Nondimeno, ci vuole poco per arrivare alla conclusione che grande parte del problema sta anche nella gelata della domanda interna. In altre parole, un’economia fondata su bassi salari, nel momento in cui si ferma l’economia europea e si ridiscutono gli assetti della globalizzazione, soffre anche della incapacità di stimolare una domanda interna in ragione del basso potere d’acquisto di salari e stipendi. La controprova è data dall’economia spagnola con un segno ampiamente positivo sul pil che aumenta di tre volte pur avendo un Pnrr inferiore come somme a quella di cui può disporre il piano italiano.
L’unico settore con segno positivo è quello delle armi e munizioni, la cui produzione è addirittura raddoppiata, un segnale della direzione verso cui si muovono le economie europee, visto che la Ue si appresta a dichiarare la spesa militare esclusa dai rigidi parametri del nuovo patto di stabilità.
Una situazione complicata, in cui non aiuta l’impennata del prezzo del gas, che incide non poco sui costi finali, né tantomeno i ritardi su Transizione 5.0, che ha provocato una dilazione delle decisioni delle imprese in vista dei nuovi incentivi. Non è una buona notizia neanche il cedimento sull’export verso i paesi esteri, in considerazione anche degli annunciati dazi che il neoletto presidente Trump minaccia anche verso l’Europa. Questo mentre siamo ancora nella fase in cui un’Europa sbigottita e senza una strategia aspetta di capire se sarà in grado di reagire compatta o dovrà rassegnarsi al fatto che ogni paese trattando in via diretta con Washington si attrezzi con una propria scialuppa di salvataggio.