Un colpo all’autonomia differenziata e due al governo
La notizia è che la Corte Costituzionale decide sui ricorsi diretti contro la legge Calderoli presentati da quattro regioni: Campania, Puglia, Toscana e Sardegna. Ma non decide per l’incostituzionalità completa della legge che voleva introdurre un regionalismo differenziato molto pronunciato e molto controverso. Decide, però, in modo tale da smontare letteralmente gli assi portanti del provvedimento concepito dal leghista. Poco conta la reazione paradossale della Lega, cioè che sarebbe una vittoria perché appunto non è stata dichiarata la completa incostituzionalità. In realtà, pochi anche tra coloro che hanno raccolto le firme per chiedere il referendum abrogativo, credevano nella possibilità di un tale esito. Tuttavia, la pronuncia della Corte equivale a un vero e proprio smontaggio della legge concepita dal leghista di Bergamo. Infatti, viene negata la possibilità di trasferire intere materie, le 23 richieste da Lombardia e Veneto. La pretesa di trasferire alle regioni interi comparti come l’istruzione o il commercio con l’estero è stata dichiarata in contrasto con la Costituzione, che prevede invece che solo specifiche funzioni possano per ragioni oggettive essere devolute alle regioni. La Corte ha dichiarato incostituzionali altri due punti chiave della legge, negando che le intese tra lo Stato e le regioni, di tipo “rafforzato” sul modello delle intese con le confessioni religiose, possano essere soltanto ratificate dal Parlamento senza possibilità di emendamenti, e che possano essere pertanto modificate dopo un’applicazione decennale solo da una nuova intesa. In secondo luogo, ha negato la possibilità di definire i Lep solo attraverso un Dpcm, atto avente forza di legge emanato unilateralmente dal Presidente del Consiglio. Sono questi i principali elementi al centro della critica degli oppositori nel corso degli ultimi mesi. Sono in effetti gli aspetti salienti che investono l’ambito operativo dentro il cui perimetro si è mosso il ministro Calderoli. Dichiararli incostituzionali significa riportare la legge nei confini della Costituzione. Non poca cosa, perché equivale a neutralizzare proprio la forzatura voluta dai leghisti – aggirare il controllo del Parlamento impedendogli di intervenire – per ottenere qualcosa che la Costituzione non a caso non ammette: cioè a dare il via a una vera e propria secessione di fatto.
Non è chiaro, a questo punto, se la Corte dichiarerà ammissibili i referendum alla luce di questa pronuncia. Ma si può dire senza tema di smentita che la legge Calderoli è stata svuotata. Anche se si procedesse a riscriverla, la Corte ha chiarito che sarebbe sempre operante il suo controllo di legittimità costituzionale. Gli effetti politici della sentenza non potevano, poi, che essere commisurati all’effetto prodotto. La falce della Suprema corte non poteva che provocare l’appena dissimulato sollievo degli alleati di governo, che hanno dovuto accettare l’autonomia differenziata in uno scambio reciproco la proposta leghista. Per avere il premierato Fratelli d’Italia; la separazione delle carriere dei magistrati Forza Italia. Quest’ultima non a caso ha dichiarato di doversi rinviare di almeno un anno la discussione delle modifiche alla legge. È chiaro però che la Lega, che aveva riposto nell’autonomia differenziata le speranza di una ripresa politica ed elettorale, non potrà che presumibilmente agire in rappresaglia sulle riforme simbolo degli alleati. Il premierato non ha già più il crisma dell’urgenza, visto che la premier, sapendo di dover affrontare il referendum costituzionale, preferisce rinviarlo alla prossima legislatura. E sulla separazione delle carriere pesa una rivolta della magistratura e un assai scarso consenso nel Paese. Vedremo; ma in ogni caso non sembrano prepararsi giorni tranquilli per il governo Meloni.