Trump vince e promette di cambiare gli Stati Uniti
(Ph. Diritti d’autore Julia Demaree Nikhinson/AP Photo)
Donald Trump ha vinto le elezioni americane. Non solo; se non era imprevedibile il ritorno alla Casa bianca del tycoon newyorkese, assolutamente sorprendente è stata invece la portata del voto, che ha letteralmente spazzato via il partito democratico e la sua candidata Kamala Harris. La vicepresidente uscente, entrata nella competizione a campagna iniziata, una volta diventato evidente che il declino fisico e psichico di Joe Biden non gli avrebbe consentito nemmeno di affrontare in modo decoroso la sfida con Trump, indicata da qualche sondaggio addirittura in rimonta, non è riuscita neanche a conservare gli storici insediamenti democratici. Nei swing-states, gli stati in bilico, dove ci si aspettava un riscontro della campagna democratica contro il pericolo di una nuova presidenza Trump, i voti repubblicani hanno prevalso non lasciando spazio ad alcuna incertezza. Non c’è stato alcuno spoglio all’ultimo voto e Trump non ha avuto alcun bisogno di mettere in atto il piano che si diceva fosse stato approntato per contestare la sconfitta: gridare ai brogli e seppellire le corti federali di ricorsi legali per ritardare il più possibile la dichiarazione di voto dei singoli stati. A spoglio in corso è stato evidente a tutti la dilagante affermazione del verbo del MAGA (Make american great again), che è ormai diventato il cuore pulsante del partito repubblicano e ne ha cambiato per sempre la natura.
Trump consegue anche la maggioranza dei voti assoluti – nella precedente elezione vittoriosa Hilary Clinton ne aveva preso tre milioni in più pur conquistando meno delegati e per questo perdendo del tutto inaspettatamente le elezioni. A essere sorprendente è l’affermazione dell’ex presidente tra le fasce tradizionalmente appannaggio dei democratici. Basti dice che la metà del voto giovanile tra i 18 e i 29 anni è andato a Trump. I blue collar, le fasce operaie, che già avevano votato Trump nel 2016 per poi ritornare in parte ai democratici nel 2020, sono nuovamente andate a gonfiare le vele del consenso del miliardario prestato alla politica. Soprattutto colpisce l’aumento del consenso tra i neri, gli ispanici e le donne, un dato che segna la sconfitta del partito democratico nel suo storico elettorato di riferimento.
Ha prevalso in queste scelte la preoccupazione per la situazione economica del ceto medio e della working class. A fronte di risultati per l’economia tutt’altro che negativi durante il mandato di Biden, è tuttavia prevalsa la rabbia per la perdita del potere d’acquisto degli stipendi che si è accompagnata a una crescente ansia per il futuro. Questo elemento, più che i roboanti proclami di Trump, hanno calamitato verso i repubblicani molti di quei voti che normalmente appartenevano al perimetro elettorale democratico. Ha pesato negativamente persino il voto della comunità musulmana tradizionalmente orientata verso il partito che fu di Clinton e di Obama, ma davanti all’esitante condotta del presidente Biden sull’attacco israeliano a Gaza e di fronte all’evidente incapacità di fermare il premier Benjamin Netanyahu, la reazione è stata un abbandono in massa delle file del partito da parte degli arabo-americani. Prova ne sia che mentre Trump vince in Michigan, dove molto forte è la comunità araba e musulmana, la deputata uscente Rashida Tlaib, le cui posizioni di condanna a Israele sono state nettissime, viene rieletta con ampio margine alla camera dei rappresentanti in un distretto dello stesso stato.
Si guarda ora con il fiato sospeso alle prossime mosse del presidente eletto che, una volta insediatosi, dovrà mettere mano al programma che ha presentato in campagna elettorale che si condenserà in un’agenda che si articola in tre filoni di fondo. Quello interno, in primo luogo, che vede nel freno brutale alla immigrazione negli Usa un punto centrale e che promette nella chiusura dei confini essere assai più duro che nel suo primo mandato. Quindi, un tentativo di rilancio dell’economia e dei settori produttivi americani basato fondamentalmente su alti dazi sulle merci cinesi ed europee in modo da stimolare la produzione interna e avere una ricaduta positiva sull’occupazione. Infine, la politica estera. Qui, Trump fa prevedere un sostanziale disimpegno dalle questioni internazionali. L’Europa dovrebbe assumersi l’onere della sua difesa: in questo senso, la richiesta di aumentare le spese militari fu avanzata già durante il suo primo mandato. Analogo disimpegno sembra potersi prevedere sulla vicenda ucraina, dove un ridimensionamento dell’interesse americano per la guerra in corso e un progressivo prosciugamento degli aiuti militari all’Ucraina dovrebbe condurre i contendenti al tavolo delle trattative. Molto probabile invece un appesantimento del confronto con la Cina, a partire dalla vertenza che riguarda Taiwan.
Saranno questi i temi nodali della nuova presidenza Trump, su cui però pesa da un lato l’incognita della proverbiale imprevedibilità del miliardario, che a 78 anni sembra avvertire il peso dell’età, dall’altro la resistenza dello stato profondo e dell’apparato amministrativo di Washington, su cui questa volta Trump promette di avere ragione facendo piazza pulita di chiunque sia sospetto di opporsi e riempendola di personale fedele al programma MAGA. In ogni caso, gli Stati Uniti durante la seconda presidenza Trump cambieranno molto.