Il piano senza speranza di Draghi
(di Raffaele Cimmino)
Dopo le prime notizie distillate con parsimonia, Mario Draghi ha presentato il suo Rapporto ufficialmente. L’ex premier italiano, nonché già presidente della BCE, era stato infatti incaricato in qualità di consulente speciale del presidente della commissione, Ursula von der Leyen, di redigere un Rapporto sulla competitività dell’Unione europea.
Presentato come “Piano Draghi”, il testo di 400 pagine si articola in capitoli che mettono al centro l’esigenza di moltiplicare gli investimenti in alcuni settori decisivi per rendere possibile l’autonomia strategica dell’Europa, che Draghi vede fortemente a rischio per l’effetto delle grandi trasformazioni in corso. Il perché è presto detto: dopo la fine della globalizzazione che ha dominato i rapporti internazionali e l’economia degli ultimi trent’anni, appare più insidioso per la Ue l’emergere delle grandi potenze economiche orientali, la Cina, l’India e nel complesso l’insieme di vecchi e nuovi Brics. Per Draghi, senza un piano strutturale di riforma del sistema produttivo di portata non meno che continentale, il futuro dell’Europa per come la conosciamo è segnato: affronterà una lenta decadenza e verrà sommersa dai nuovi protagonisti globali.
Dunque, secondo il Rapporto vanno moltiplicati gli investimenti in energie pulite, nell’approvvigionamento di materie prime e nella farmaceutica, oltre che nel settore della difesa. Si tratterebbe insomma di scrivere una nuova strategia industriale che permetta all’Europa di arrivare almeno al livello della produttività dell’economia americana. Particolare attenzione viene dedicata al settore della difesa dove, secondo Draghi, vanno moltiplicati gli sforzi per creare un unico conglomerato produttivo europeo del settore, tale da consentire all’Europa di fronteggiare i rischi sistemici che si presentassero alle porte. Il riferimento alla Russia e alla vicenda ucraina sembra essere il retroterra narrativo di questa raccomandazione particolarmente insistita di Draghi, che, anche nella conferenza stampa tenuta per presentare il Rapporto, è tornato con forza sul tema.
Per l’ex presidente del Consiglio la traccia portante del ragionamento è la portata degli investimenti che possono consentire tale percorso. Draghi calcola che servano intorno agli 800 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi ogni anno. Si tratta, come è stato detto, di una somma tra il doppio e il triplo dell’entità di quel Piano Marshall che consentì all’Europa di risollevarsi dalle rovine lasciate dal secondo conflitto mondiale. Si tratta di risorse aggiuntive che potrebbero essere raccolte soltanto attraverso un grande piano che preveda, oltre all’impiego di capitali privati, l’emissione di bond europei e una unificazione del bilancio europeo.
Proprio questo, però, è il punto debole del Piano. La possibilità di replicare lo schema del Next Generation EU, varato proprio grazie alle proposte di Draghi, è assolutamente improponibile per i governi europei nella fase attuale. Le complesse vicende politiche dei due paesi guida, Francia e Germania, le cui leadership sono uscite fortemente indebolite dagli ultimi appuntamenti elettorali di quei Paesi, escludono che si possano mettere sul piatto decisioni di tale portata. La reazione del Ministro delle Finanze del governo tedesco – l’austeritario Lindner – è stata indicativa in tal senso, ma la stessa Von der Layen si è ben guardata dal dare una sponda alla proposta. Di fonte all’avanzata delle destre sovraniste, e antieuropeiste, a stento arginate nelle ultime europee ma in grado ormai di incidere anche sulle proposte di forze centriste come i popolari, ogni proposta che vada in direzione del “più Europa” predicata viene vista come il fumo negli occhi.
Mario Draghi ha presentato il Rapporto e ha il grande merito di avere alzato il livello del dibattito di piccolo cabotaggio prevalente in Europa nonché dei contenuti con un documento di grande ambizione. Ma tutto dice che oltre l’omaggio formale dovuto a un uomo che ha vissuto da protagonista importanti stagioni non si andrà. La politica europea sta andando in tutt’altra direzione. A Draghi rischia di rimanere solo il triste ruolo di profeta inascoltato.