Manovra finanziaria: traspare austerità

Mugugni nella maggioranza. Necessità o propaganda in vista delle europee?
La manovra finanziaria licenziata dal governo per la prima volta nella storia repubblicana non verrà emendata. Almeno questa è la versione fornita ad uso pubblico. Una scelta che sta provocando mugugni quando non voci di aperto dissenso nella maggioranza, come nel caso del senatore Claudio Lotito, presidente della commissione bilancio al Senato. È probabile quindi che un minimo di modifiche verrà accordato alle singole forze del governo senza cambiare i saldi complessivi né l’indirizzo generale. In ragione dell’alto debito pubblico, troppo elevato è il prezzo che si pagherebbe per un giudizio negativo delle agenzie di rating se il governo allentasse l’impostazione che si è dato.
Il quadro delineato dalla Nadef non lascia intravedere uno scenario particolarmente brillante sotto il profilo della performance economica. Difatti, sembra la manovra di un governo che ha fatto proprio il dogma dell’austerità considerato che è assai dubbio un accordo rapido su un nuovo patto di stabilità molto diverso da quello preesistente tuttora sospeso, ha vinto dunque la linea imposta dal Ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti, che è stata sposata interamente dalla premier Giorgia Meloni.
La contraddizione però è che si tratta di una manovra fatta sì in austerità ma sostanzialmente, e per ben due terzi, in deficit. Vediamo cosa contiene. Si conferma per un altro anno il taglio del cuneo fiscale, per il quale si impegnano 10 miliardi per sostenere gli stipendi più bassi ormai mangiati dall’inflazione. Si accorpano due aliquote Irpef, passando da quattro a tre scaglioni, oltre a reiterare la flat-tax sui guadagni incrementali per i redditi da lavoro autonomo fino a 85.000 euro l’anno. Queste misure rappresentano il cuore della manovra ed è in tutta evidenza la parte che viene fatta a debito. Tutto il resto, circa un terzo, ha reso necessario il ricorso ad aumenti di tasse indirette, perfino sulle sigarette, come ai tempi della prima Repubblica, e addirittura su pannolini e assorbenti. Un colpo durissimo viene inferto alle pensioni dei dipendenti pubblici che hanno iniziato a lavorare tra il 1981 e il 1995, che possono arrivare a perdere fino a 7000 euro lordi l’anno per il ricalcolo contributivo delle pensioni. Proprio sulle pensioni è maturata una sconfitta politica appena mascherata della Lega. Cassata subito quota 104 (63 anni di età e 41 di contributi), quota 103 resta comunque una meta irraggiungibile per la maggioranza degli aspiranti pensionati. Si tratta nei fatti perfino di un peggioramento della legge Fornero, storico tabù leghista. Sarà infatti impossibile lasciare il lavoro senza pesanti penalizzazioni. Non è andata meglio a Forza Italia, che ha visto respinta la richiesta di ridurre la cedolare secca sulle seconde case in affitto: è stata confermata al 26%. Si prevede poi di incassare venti miliardi in un triennio da future privatizzazioni. Ma da privatizzare è rimasto ormai ben poco.
Naturalmente sono le condizioni generali del ciclo economico a pesare, alla luce delle continue strette monetarie della BCE in chiave antinflazionistica. Detto questo, però, le scelte del governo sembrano piegate più a esigenze di immediata spendibilità in termini di consenso elettorale (le europee sono vicine) che alla necessità di stimolare un’economia in debito di ossigeno. Se nessuno dei paesi europei sembra in grado di esibire previsioni di crescita brillanti, per l’Italia lo scenario è ancor più oscuro. Permane, dopo il rimbalzo postpandemia, un quadro di sostanziale stagnazione che vede l’economia nazionale arrancare. Neanche la possibilità dell’uso delle risorse del Pnrr sembra in grado di fare da volano a una ripresa o almeno a una riconversione del sistema produttivo italiano.
I grandi cambiamenti intervenuti almeno a partire dalla pandemia hanno terremotato e ridisegnato l’economia globale come mai negli ultimi decenni. L’intera filiera delle catene del valore che sostenevano la globalizzazione ne è uscita stravolta. Persino l’idea stessa di mercato globale come si è affermato a partire dagli anni ’90 risulta destabilizzato. Il modello produttivo europeo, in cui l’Italia si era ritagliata un ruolo sussidiario al sistema tedesco, fondato sull’esportazione e sul consumo di energia a basso costo, è ormai insostenibile. Nessuno sa ancora come si riassesterà l’economia europea. Un sistema, questo, in cui l’Italia riveste il ruolo del vaso di coccio. Percezione che anche a leggere la manovra non sembra essere avvertita né tra le fila del governo né nella maggior parte della classe dirigente italiana. Più che il lavoro per il futuro prevale la logica del piccolo cabotaggio e della sopravvivenza giorno per giorno. Viene da chiedersi dove si possa andare proseguendo in questo modo.